La “fuga di cervelli”, un luogo comune come molti altri su giovani e lavoro
30 Aprile 2012
Nel secolo scorso, la politica italiana si misurò con una ideologia, seria e strutturata, come il comunismo, evitando che essa prendesse il sopravvento. In questo secolo, invece, la politica si è arresa, quasi senza combattere, al <luogocomunismo> ovvero ad un pensiero intessuto di luoghi comuni. Se ne sentono tanti quando si affronta il tema dell’occupazione giovanile.
Da tempo, il concetto di responsabilità è stato coinvolto nella pratica nazionale dello scaricabarile: si comincia con la famiglia, poi si passa alla scuola, di seguito al lavoro, ai padroni, ai partiti e ai leader politici che non piacciano, fino ad arrivare al patrio Governo. Quante volte, ad esempio, viene evocata la c.d. fuga dei cervelli, come se un Paese che nel primo secolo della sua unità ha sparso per il mondo 26 milioni di connazionali (quasi sempre <braccia>) dovesse sentirsi impoverito se, nel mondo della globalizzazione, vi sono dei giovani italiani (secondo AlmaLaurea il 4,5% dei laureati da un anno trovano lavoro all’estero) che vanno ad implementare saperi, intelligenze e creatività laddove possono dare e ricevere un contributo alla loro formazione.
Ma non si venga a dire, a onor del vero, che all’estero trovano quella stabilità <giuridica> che sovente viene rivendicata in Italia. Nei Paesi leader della ricerca, dell’economia e dell’innovazione, la continuità lavorativa e il livello di reddito sono variabili dipendenti dal merito, quel merito che da noi è spesso disconosciuto proprio perché non viene più richiesto a coloro che sono entrati, in qualche modo, nella cittadella dei diritti. Ma davvero, poi, esistono al di là dei mari e degli oceani degli Eldoradi incontaminati e generosi pronti a garantire quella sicurezza che la Patria matrigna nega?
Mi è capitato di leggere su Twitter la segnalazione (ritwittata da un bravo giornalista come Dario Di Vico) del caso di un giovane italiano di 28 anni (di cui scriviamo il nome: Davide), laureato alla Bocconi, già impiegato a tempo indeterminato in una banca da cui si è dimesso perché non gli sembrava di avere prospettive di carriera. Così, dopo aver svolto alcuni lavori temporanei, Davide ha deciso di andare a cercare fortuna in Australia. E’ partito il 14 febbraio scorso per Sidney, dove ha trovato un impiego, ben retribuito, da cameriere. Come dire, con l’antico filosofo: Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt. Ovviamente, non cadiamo nell’errore di generalizzare casi personali, se non per segnalare che Davide ha avuto un approccio giusto, preoccupandosi in primo luogo di trovare un lavoro che gli consentisse di vivere e di guardarsi attorno. Se qualcuno esortasse i giovani a seguire l’esempio di Davide rimanendo in Italia sarebbe sommerso dalle critiche: ma come? Un bocconiano a fare il cameriere!
Infatti, il refrain è sempre lo stesso: disoccupazione, sfiducia, speranze deluse , assenza di futuro. I dati – è vero – sono drammatici ed è bene non abbassare mai la guardia. Ma la realtà non è fatta solo di casi negativi, di giovani che hanno gettato la spugna, che non studiano più, non hanno un lavoro e non lo cercano neppure (le statistiche ce li indicano con un certo compiacimento). Esistono anche esperienze positive – sicuramente maggioritarie – di giovani che hanno trovato la loro strada, attraverso sentieri scoscesi che sono, almeno in larga parte del Paese, a disposizione di chi vuole cimentarsi a percorrerli. Ma queste situazioni – ecco la storia sempiterna l’uomo che morde il cane – non fanno notizia, sono paradossalmente considerate anomalie, se non vere e proprie eccezioni.
C’è qualcuno che ricorda di aver seguito, in alcuni dei talk show più ruggenti, un servizio sulla imprenditoria giovanile (di cui e’ operante, dal 2011, un Osservatorio presso Unioncamere)? In Italia sono più di 720mila le imprese guidate da un under 35enne (quasi il 12% di tutte le imprese italiane). Roma è la provincia dove sono concentrate, in maggior numero (oltre 44mila) le iniziative imprenditoriali giovanili. Ma Napoli (oltre 40mila) ne vanta più di Milano (poco meno di 30mila). Anzi, ben 6 province meridionali si collocano nella classifica delle prime 10. Il settore che attrae maggiormente, in cifra assoluta, l’imprenditorialità giovanile è quello del Commercio con quasi 200mila imprese. Ben 65mila imprese operano in agricoltura. Ma la più elevata concentrazione di imprese giovanili sta nei servizi alla persona (un’attività in costante sviluppo) in numero pari al 16,2% del totale delle imprese operanti nel settore.
In tale contesto, difficile, ma ricco di esperienze diverse ed interessanti, ciò che irrita di più è l’assunzione acritica dei luoghi comuni, che uno dopo l’altro si ossificano come verità indiscusse ed entrano nei circuiti dell’informazione senza che nessuno si azzardi – o se prova di farlo riesca – a metterli in dubbio.