La Gelmini deve osare di più se vuole ridare dignità all’università
20 Giugno 2008
Dopo avere criticato a fondo, negli anni scorsi, la gestione centralistica e burocratizzante del ministro dell’Università e della Ricerca, Fabio Mussi, confesso che mi aspettavo di più dalla prima uscita nel campo dell’università e della ricerca del neo-ministro, la signora Maria Stella Gelmini. Quanto il ministro ha detto davanti alla Commissione Cultura della Camera (17 giugno 2008) mi pare, purtroppo, rappresentare una sorta di minimo comune denominatore sul quale, almeno a livello di parole e di concetti, siamo da anni ormai tutti d’accordo, perfino l’ex ministro Mussi.
Trovatemi qualcuno che sostenga di essere contro il merito, contro l’autonomia e contro la necessità della valutazione. Che si dica a favore della politicizzazione delle assunzioni dei docenti. Che sostenga di non volere agevolare gli studenti indigenti, i fuori sede e i giovani ricercatori. Che non desideri il ritorno dei cervelli italiani esportati all’estero, impedisca l’arrivo di docenti stranieri o sia per principio contrario ai docenti "che non provengano strettamente dal mondo accademico" (nonostante quest’ultima apertura abbia prodotto soprattutto effetti negativi). Chi è che non auspichi la diminuzione delle discipline, dei corsi di laurea, e dei settori scientifico-disciplinari?
A mia memoria, non c’è stato ministro responsabile dell’università che non abbia detto e ripetuto tutte queste stesse cose – salvo poi non riuscire a metterne in pratica nemmeno una o addirittura a distruggere quel poco di buono che nonostante tutto continuava a sopravvivere (vedi la riforma Zecchino-Berlinguer). La stessa idea dell’università come "area di parcheggio", ripresa dal ministro Gelmini, risale almeno alle lotte contro il disegno di legge 2314 allora proposto dal ministro democristiano Luigi Gui nel 1967.
Avevamo molto apprezzato il fatto che il ministro Gelmini, con quel pragmatismo e quella pacatezza che avevamo imparato a ben conoscere in campagna elettorale, si fosse presa un po’ di tempo per studiare i dossier del suo ministero prima di fare dichiarazioni pubbliche circa le sue linee guida nella conduzione della scuola, dell’università e della ricerca. Ma se sulla scuola qualcosa di nuovo lo abbiamo poi sentito, la sua ricetta per l’università sa ancora tanto di vecchia burocrazia e tecnocrazia ministeriale, e presenta ben poco di quel capovolgimenti del sistema che si saremmo aspettati da lei.
Dov’è, per esempio, l’abolizione del valore legale dei titoli di studio? Si ha un bel parlare di autonomia universitaria e di competizione tra le sedi, ma finché i titoli che producono restano uguali di fronte alla legge, l’incentivo a produrre merito crolla verticalmente.
Dov’è, per esempio, l’abolizione della stessa idea di concorso pubblico, un feticcio che Francesco Giavazzi ha recentemente proposto di abolire addirittura nella scuola pubblica su un quotidiano da establishment quale il Corriere della Sera. Ci siamo dimenticati dei concorsi baronali (e delle assunzioni non certo per merito) dell’università di tutto il dopoguerra, quando i concorsi erano nazionali e si svolgevano soltanto a Roma? O le vere e proprie campagne elettorali che si svolgevano a livello nazionale per eleggere i membri delle commissioni? O il peso fortissimo dei gruppi di potere romani (sì, romani, ministro Gelmini) che controllavano quei concorsi? Ora sembra che tutta la colpa del disastro ricada sul fatto che i concorsi avvengono (almeno in parte) in sede locale, e la cooptazione prevalga sul merito, laddove è proprio attraverso la cooptazione che funziona, per esempio, il sistema di assunzioni che porta alle università migliori del mondo, quelle nordamericane.
Dov’è, per esempio, quell’obiettivo strategico che ci saremmo aspettavati dalla storia politica del ministro Gelmini, vale a dire, in prospettiva, la stessa abolizione proprio del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, o quantomeno la sua riduzione a una mera funzione di coordinamento (ma non di indirizzo etico-politico). A conti fatti, ci sembra, quella maggiore autonomia universitaria che tutti auspicano (includendo nel disegno autonomistico anche i centri di ricerca, in primis il Consilio Nazionale delle Ricerche) comporta, automaticamente, minore ingerenza ministeriale a tutti i livelli — di indirizzo scientifico, di autogoverno e di controllo sulle risorse.
Dov’è, per esempio, alla voce finanziamento degli studenti, l’indicazione che l’unico vero criterio di aiuto è il merito del candidato, indipendentemente dal suo status sociale, dal reddito della famiglia o dal luogo di residenza? Dopo i diciotto anni, perché legare alla famiglia di provenienza il destino di un maggiorenne studente (ma anche dottorando, post-doc, ricercatore, etc.), che deve invece essere considerato un adulto autonomo a tutti gli effetti, e non essere favorito o sfavorito in base alla provenienza di genitori sulla cui storia non ha e non può avere alcun controllo? L’affirmative action sociale a cui probabilmente si ispira il ministro Gelmini (ma a cui si ispirava anche l’ex ministro Mussi) va lasciata alla valutazione della singola università o del singolo centro di ricerca (o anche delle autorità locali), e non va certo imposta dall’alto secondo griglie astratte ed eticamente indirizzate.
Insomma, ministro Gelmini, la sua storia ci fa intuire che lei sarebbe d’accordo con noi su tutto quanto abbiamo finora così parzialmente esemplificato (o almeno su molto). Quanto però ci ha fatto sapere finora, come diceva il mio maestro elementare, ci sembra poco farina del suo sacco.