La geopolitica contemporanea è piena di faglie e punti di rottura
19 Agosto 2009
Una delle forze che sta rimpicciolendo la mappa dell’Eurasia è la tecnologia, in particolare le sue applicazioni militari e la crescente potenza che ne traggono gli stati. Nei primi anni della guerra fredda, gli eserciti asiatici erano istituzioni elefantiache, il cui compito primario era il consolidamento della nazione. Guardavano all’interno dei propri confini. Ma con il crescere della ricchezza e l’affermarsi della rivoluzione informatica, sono diventati – partendo dal Medio Oriente e finendo alle tigri economiche che affacciano sul Pacifico – organizzazioni capaci di elevata flessibilità, equipaggiate di missili, fibre ottiche e telefoni satellitari, che si appoggiano su complessi a struttura mista militare-civile tipicamente postindustriali. Quegli stati sono anche diventati più coesi, permettendo ai loro militari di guardare all’esterno, versi altri stati. La geografia dell’Eurasia, piuttosto che un cuscinetto, sta diventando una prigione da cui non si può fuggire.
Adesso, per usare le parole di Bracken, c’è una “ininterrotta cintura di nazioni”, da Israele alla Corea del nord, impegnate a sviluppare missili balistici e arsenali altamente distruttivi. Una mappa che riporti le gittate dei missili in possesso di questi paesi, mostrerebbe una serie di cerchi sovrapposti: non solo nessuno è al sicuro, ma una reazione a catena sul modello del 1914 che porti a una guerra allargata è facilmente ipotizzabile. “Il diffondersi dei missili e delle armi di distruzione di massa in Asia è simile al diffondersi della six-shooters (la rivoltella dotata di tamburo a sei colpi, ndt) nel vecchio West”, scrive Bracken: un fattore di equilibrio internazionale economico e letale.
L’altra forza alla base della rivincita della geografia è la crescita della popolazione, che rende la mappa dell’Eurasia ancor più claustrofobica. Negli anni Novanta, molti intellettuali consideravano il filosofo settecentesco Thomas Malthus come un pensatore eccessivamente determinista, in quanto trattava l’umanità come una specie che reagisce all’ambiente fisico che la circonda, piuttosto che come a un insieme di singoli individui. Ma col passare degli anni, e con le crescenti fluttuazioni dei prezzi del cibo e dell’energia, la reputazione di Malthus è in crescita. Camminando per le periferie di Karachi o di Gaza, dove tantissimi attivisti religiosi – soprattutto giovani uomini – inscenano le loro proteste, si può facilmente constatare come i conflitti per accaparrarsi le scarse risorse disponibili preconizzati da Malthus si stiano verificando. Nei trent’anni in cui mi sono occupato del Medio Oriente, l’ho visto evolvere da una società essenzialmente rurale a un regno di modernissime megalopoli. Nei prossimi vent’anni, la popolazione araba sarà quasi raddoppiata, ma le riserve d’acqua saranno minori di quelle attuali.
Una Eurasia fatta di grandi aree urbane, minacce missilistiche reciproche e media portati al sensazionalismo sarà un’Eurasia fatta di folle bellicose, alimentate da voci che viaggiano alla velocità della luce da una megalopoli del terzo mondo all’altra. E così, in aggiunta a Malthus, dovremo sentir parlare abbondantemente di Elias Canetti, il filosofo del XX Secolo che parlava della psicologia delle folle, ossia del fenomeno costituito da una massa di persone che perdono la propria individualità in cambio di qualche velenoso simbolo collettivo. E’ soprattutto nelle città euroasiatiche che la psicologia delle folle avrà un grosso impatto geopolitico. Ma anche qui, le idee hanno importanza. Ed è proprio la compressione geografica dei tempi moderni a procurare un terreno di coltura ideale su cui ideologie pericolose possono crescere e diffondersi.
Tutto ciò richiede un’estesa rivisitazione delle teorie geopolitiche di Mackinder. Perché il rimpicciolirsi della mappa dell’Eurasia, e il suo riempirsi di gente, non solo cancella le regioni immaginate in quelle concezioni, ma annulla anche la divisione dell’Eurasia fatta da Mackinder, tra un “perno” centrale e zone a esso “marginali”. L’assistenza militare della Cina e della Corea del Nord all’Iran possono provocare una reazione armata di Israele. La US Air Force può attaccare l’Afghanistan, una nazione che non affaccia sul mare, partendo dall’isola di Diego Garcia, che si trova in mezzo all’Oceano Indiano. Le marine militari cinese e indiana possono proiettare il loro potere dal golfo di Aden al Mar cinese meridionale, ossia al di fuori delle regioni di propria pertinenza, investendo tutto il perimetro continentale. In breve, a detrimento di Meckinder, l’Eurasia è diventata un tutto organico.
Che la nuova mappa dell’Eurasia sia priva di fratture lo si può vedere in Pakistan, nell’avamposto di Gwadar. Là, sull’Oceano Indiano, in prossimità della frontiera indiana, i cinesi hanno costruito un nuovissimo porto d’acque profonde. Il prezzo dei terreni sta andando alle stelle, e la gente parla di questo ancora sonnacchioso villaggio di pescatori come della futura Dubai, che un giorno potrebbe unire, attraverso lo stretto di Malacca, le città dell’Asia centrale alle fiorenti classi medie cinese e indiana per mezzo di gasdotti e supertanker. I cinesi, inoltre, hanno in serbo piani per sviluppare altri porti indiani con l’obiettivo di far arrivare gli oleodotti direttamente nella Cina occidentale e centrale, anche qualora un ponte venisse costruito sull’istmo di Kra, in Thailandia. Non contenti di essere aggirati dai cinesi, gli indiani stanno allargando i loro porti e stringendo accordi con Iran e Birmania, dove la rivalità con la Cina raggiungerà lo zenit.
Queste connessioni sempre più profonde stanno trasformando il Medio Oriente, l’Asia centrale e gli oceani Pacifico e Indiano in un vasto continuum, del quale l’angusto e vulnerabile Stretto della Malacca sarà il Fulda Gap del XXI Secolo (Fulda Gap, zona della Germania di alto valore strategico ai tempi della guerra fredda – ndt). I destini del Medio Oriente islamico e dell’Indonesia islamica stanno così diventando inestricabili. Ma sono i vincoli geografici, non quelli religiosi, ad avere maggiore importanza.
Questa nuova mappa dell’Eurasia – più stretta, più integrata, e più popolosa – sarà ancora meno stabile di quanto pensava Mackinder. Invece di alcuni centri principali, “heartlands”, e zone marginali, che implicano separazione, ci ritroveremo con una serie di noccioli interni ed esterni fusi insieme da una politica di massa e da una paranoia comune. Infatti, gran parte dell’Eurasia diventerà probabilmente tanto claustrofobica quanto lo sono adesso Israele e i territori palestinesi, con la geografia che controlla ogni cosa e non lascia spazi di manovra. Sebbene il sionismo sia un esempio della potenza delle idee, la battaglia per la terra tra israeliani e palestinesi è un caso di totale determinismo geografico. Questo è anche il futuro dell’Eurasia.
La capacità degli stati di controllare gli eventi resterà indebolita, in alcuni casi distrutta. I confini artificiali cominceranno a sfaldarsi, a diventare permeabili, lasciando al loro posto soltanto i fiumi, i deserti, le montagne e altri incontrovertibili fatti geografici. In effetti, la conformazione fisica del terreno potrebbe diventare la sola guida credibile per capire i conflitti futuri. Come le scosse della crosta terrestre producono instabilità in certe regioni, così ci sono aree dell’Eurasia maggiormente inclini ai conflitti di altre. Queste “zone frammentabili” minacciano di implodere o di esplodere, e se ciò non accade mantengono un equilibrio comunque precario. Non è sorprendente che cadano nel nocciolo instabile dell’Eurasia: il grande Medio Oriente, la grande regione di transito tra il bacino del Mediterraneo e il subcontinente indiano, un luogo che fornisce i riscontri più chiari di tutte le principali variazioni della politica internazionale.
Questo nocciolo interno, per Mackinder, è la più instabile delle regioni. Eppure, lui scriveva in un’epoca in cui oleodotti e missili balistici erano di là da venire; il fatto è che scorgeva in essa una sorta di intrinseca volatilità. Ma le concedeva un’importanza secondaria. Un secolo di sviluppo tecnologico e di crescita demografica hanno reso il Medio Oriente non meno instabile ma certo più determinante, e dove l’Eurasia maggiormente rischia di finire in pezzi è proprio nelle diverse “zone frantumate” di quell’area.
Il subcontinente indiano è una di esse. E’ individuato, sul suo bordo terrestre, da solidissimi bastioni geografici quali la catena montuosa dell’Himalaya, a nord, e la giungla birmana, a est; e dal confine un po’ più soft rappresentato dal fiume Indus, a ovest. In effetti, la frontiera occidentale si divide in tre parti: l’Indus; le scoscese montagne che sfociano nelle lande desolate dell’Asia centrale, terra delle tribù Pashtun; e, alla fine, il granitico, imbiancato massiccio dell’Hindu Kush, che si inoltra in Afghanistan. Dato che questi impedimenti geografici non sono in contraddizione con le frontiere legali, e dato che ci vuole un po’ di generosità per considerare i vicini dell’India come degli stati veramente funzionanti, l’attuale conformazione politica del subcontinente non si può dare per acquisita.
Lo si capisce chiaramente facendosi una camminata avanti e indietro per quelle frontiere terrestri, le più deboli delle quali, stando alla mia esperienza personale, sono proprio quelle ufficiali: una mera collezione di tavoli dove annoiati burocrati ispezionano i bagagli dei viaggiatori. Soprattutto a occidente, la sola frontiera degna di questo nome è l’Hindu Kush, il che mi porta a pensare che anche limitatamente al periodo in cui viviamo l’apparente ordine in cui sono inquadrati il Pakistan e l’Afghanistan sudoccidentale può scomparire, facendo spazio a un ritorno dell’idea, seppur vaga, della “grande India”.
In Nepal, il governo controlla a malapena le campagne, dove vive l’85% della popolazione. Nonostante l’aurea di salubrità riflessa dall’Himalaya, quasi la metà dei nepalesi vivono nelle umide vallate a ridosso del confine con l’India. Viaggiando attraverso questa regione, ci si può rendere conto che le differenze con la pianura del Gange sono minime. Se i maoisti attualmente al potere in Nepal non riescono a rinsaldare il ruolo dello Stato, lo stato stesso può dissolversi.
Lo stesso discorso vale per il Bangladesh. Ancor meno del Nepal, può giovarsi di difese geografiche che lo rendano uno stato. Quello che vedevo dal finestrino del pullman sul quale viaggiavo attraverso quel paese, era lo stesso paesaggio piatto e acquatico fatto di risaie e boschi che si può vedere da entrambe le parti del confine con l’India. Questa macchia artificiale di territorio nel subcontinente indiano potrebbe cambiare ancora una volta, travolta dalle tempeste della politica regionale e dell’estremismo islamico, e dalla stessa natura.
Come nel Pakistan, anche nel Bangladesh nessun governo, militare o civile, ha mai funzionato neanche lontanamente bene. Milioni di rifugiati bengalesi hanno già attraversato il confine per entrare illegalmente in India. Con 150 milioni di persone – una popolazione più grande di quella russa – ammassata al livello del mare, il Bangladesh è vulnerabile a qualsiasi variazione climatica, figurarsi quelle provocate dal riscaldamento globale. Semplicemente per motivi geografici, decine di milioni di persone, in Bangladesh, potrebbero finire inondate dall’acqua salata, avendo poi bisogno della madre di tutti gli interventi umanitari. Nel frattempo, lo stato sarebbe crollato.
Ovviamente, il peggiore incubo del subcontinente è il Pakistan, le cui disfunzioni sono il risultato diretto della sua totale mancanza di logica geografica. L’Indus potrebbe essere una sorta di confine, invece il Pakistan si allunga a cavallo delle sue sponde, proprio come la fertilissima pianura del Punjab è tagliata in due dal confine indo-pakistano. Solo il deserto di Thar e le paludi meridionali costituiscono, al sud, una frontiera naturale tra i due paesi. E sebbene si tratti di barriere formidabili, sono comunque insufficienti a strutturare uno stato tanto composito, in cui vivono diverse etnie, ognuna geograficamente localizzata. A unire Punjab, Sindi, Baluchi e Pashtun è l’Islam. Ogni altro gruppo odia i Punjab e l’esercito da loro controllato, esattamente come nella ex Jugoslavia i non serbi odiavano i serbi e l’esercito che questi controllavano. La ragion d’essere del Pakistan è quella di dare una patria ai musulmani del subcontinente, ma di questi, ben 154 milioni – quasi tanti quanto l’intera popolazione del Pakistan – vivono in India.
A ovest, le montagne e i crepacci della frontiera nordoccidentale del Pakistan, che delimitano l’Afghanistan, sono del tutto permeabili. Ogni volta che ho attraversato quel confine, non ho mai avuto bisogno di farlo legalmente. In realtà, quei due paesi sono inseparabili. Da entrambe le parti vivono i Pashtun. La fascia di territorio selvaggio tra le montagne dell’Hindu Kush e il fiume Indus è il Pashtunistan, un’entità che minaccia di emergere qualora il Pakistan dovesse collassare. Ciò porterebbe, automaticamente, alla dissoluzione dell’Afghanistan
I talebani non sono altro che l’ultima incarnazione del nazionalismo Pashtun. In effetti, la gran parte dei combattimenti in Afghanistan si verifica nel Pashtunistan, ossia nella zona sudorientale del paese e nelle aree tribali del Pakistan. Il nord dell’Afghanistan, a ridosso dell’Hindu Kush, ha visto meno scontri, è nel mezzo della ricostruzione e sta costruendo relazioni più strette con le repubbliche ex sovietiche dell’ex Urss, abitate dalle stesse etnie che popolano l’Afghanistan settentrionale. Questo è l’estremo mondo di Mackinder, fatto di montagne e di uomini, dove i fatti della geografia si impongono ogni giorno, per il grande dispiacere delle forze a guida Usa e anche dell’India, il cui destino e i cui confini sono ostaggio di quel che accade nei dintorni delle montagne dell’Hindu Kush. (continua…)
Tratto da Foreign Policy
Traduzione Enrico De Simone