La giovane Italia non sogna la carriera

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La giovane Italia non sogna la carriera

La giovane Italia non sogna la carriera

19 Agosto 2025

C’è un’Italia che cambia, silenziosamente ma in profondità. Un’Italia di giovani, istruita, digitale, ma sempre più distante dal mondo del lavoro così come lo abbiamo conosciuto. Non è solo una questione generazionale: è una mutazione culturale, sociale, persino antropologica. I dati parlano chiaro, ma è nel loro intreccio che si coglie il senso di un cambiamento epocale.

La cosiddetta Gen-Z – i nati tra il 1996 e il 2012 – rappresenta oggi il 10% della forza lavoro italiana, ma sarà il 58% di quella globale entro il 2030. È la generazione più laureata, cresciuta con la didattica a distanza, nativa digitale. Eppure, non sogna la carriera. Preferisce esperienze, cerca senso, pretende equilibrio tra vita e lavoro. Il lavoro non è più status, ma spazio di espressione personale.

Secondo l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, questa generazione è profondamente segnata da instabilità e sfiducia, colpita com’è da fenomeni globali come le crisi economiche, la pandemia, l’emergenza climatica, e guerre commerciali. Ne deriva una visione del futuro incerta, spesso pessimista. Il mercato del lavoro italiano appare respingente: troppo complesso, poco inclusivo, incapace di valorizzare i giovani. Non sorprende che l’80% degli intervistati dichiari di voler lavorare all’estero.

Un tempo era l’azienda a scegliere il candidato. Oggi, è il giovane a valutare l’offerta. Il 51,6% dei 18-34enni dichiara di aver concluso un colloquio con un “le farò sapere”. Un comportamento che solo il 25,8% dei senior avrebbe adottato. Il lavoro è diventato una scelta, non un obbligo. E la scelta si basa su criteri nuovi: welfare, inclusione, flessibilità, coinvolgimento.

La ricerca condotta da Community Research&Analysis per Federmeccanica mostra come le aspettative siano radicalmente cambiate. I giovani cercano ambienti che valorizzino i talenti, rispettino la diversità, offrano benessere. Il lavoro è visto come percorso, non come posto fisso. Una navigazione in mare aperto, alla ricerca di approdi temporanei.

Ed è qui che si apre una questione cruciale: come farà il tessuto delle PMI italiane, che sono la spina dorsale del Paese, a rendersi attrattivo per le nuove generazioni? Come faranno le vecchie strutture di rappresentanza, penso in primis ai sindacati, a fare da anello di congiunzione tra il lavoro e i giovani? Se le prime pensano di continuare a considerare il lavoro alla stregua di un fattore da gettare nel mix della loro formula imprenditoriale, si sveglieranno senza più lavoratori. Se i secondi pensano di andare in piazza a scioperare per ottenere il welfare aziendale, si sveglieranno senza più iscritti.

I tempi cambiano e secondo la massima di John Fitzgerald Kennedy, “Il cambiamento è legge della vita. E coloro che guardano solo al passato o al presente, sicuramente perderanno il futuro.”

La soluzione non passa dalla lamentela o dalla protesta, o dall’applicazione di formule morte negli anni ’70, ma dall’accettazione – da parte di imprese e lavoratori – del concetto di flessibilità.

Una flessibilità sana, strutturata, che renda le carriere più dinamiche, le aziende più disponibili a investire, e che, se inserita in una riforma più ampia, possa portare addirittura a riduzioni del cuneo fiscale. Così le PMI sarebbero più libere di assumere nuove competenze, dando carburante alle proprie idee imprenditoriali, potrebbero avere nuova linfa per guardare al futuro e spingere sul ricambio generazionale in misura più convinta.

La flessibilità sbloccherebbe quella cortina che rende il mondo del lavoro rigido e ancorato ai vecchi sistemi: le aziende sarebbero costrette ad ascoltare di più i giovani e quest’ultimi si avvicinerebbero molto di più ad un mondo imprenditoriale, che a differenza da ciò che sembra emergere da queste ricerche è forte, solido e rappresenta un eccellente viatico per un giovane che vuole crescere e esprimere sé stesso.

Come diceva Peter Drucker, “Il modo migliore per predire il futuro è crearlo.”

E allora creiamolo, questo futuro: con riforme intelligenti, con ascolto reciproco, con il coraggio di cambiare.

Vorrei tuttavia chiudere con un appello ai giovani che si approcciano al mondo del lavoro. Mi capita sempre più spesso che, al primo colloquio, mi venga chiesto: “Quante giornate di home working sono previste?”. Domanda legittima, magari in uno stadio più avanzato dei colloqui, ma certamente non quella centrale.

Il colloquio è una porta che si apre su un’opportunità per voi, non un contratto da negoziare sul comfort. Chiedete invece cosa l’azienda può fare per voi, quali prospettive offre, se c’è la possibilità di fare esperienze all’estero, di muoversi tra dipartimenti, di crescere. Mettetevi in gioco, senza preconcetti. È così che si costruisce una carriera.

È così che si costruisce se stessi.