La giustizia italiana è tra le più arretrate d’Europa. Lo dice uno studio del CNR
23 Marzo 2010
La vera risorsa non sta nei fondi, ma nella collaborazione fra diversi organi di giustizia. Questo è quanto emerge da uno studio effettuato dall’Istituto di Ricerca sui Sistemi Giudiziari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Irsig-Cnr) in collaborazione con il Centro Studi e Ricerche sull’Ordinamento Giudiziario dell’Università di Bologna. Una ricerca che è stata condotta per mettere a confronto i sistemi giudiziari europei con quello italiano per valutare e promuovere la qualità della giustizia nel nostro paese, analizzando da un lato le riforme applicate nei vari paesi europei, dall’altro il modo in cui i magistrati italiani vedono queste riforme.
E’ emerso che l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, il mediocre trattamento subito dai cittadini spesso costretti a lunghe e snervanti attese nei corridoi dei tribunali, la scarsa fiducia di cui gode l’amministrazione della giustizia, sono solo alcuni dei problemi di cui soffre il sistema italiano. Questi problemi, tuttavia, non hanno caratterizzato solo l’Italia e possono essere affrontati anche senza stanziare maggiori finanziamenti. Una più efficiente gestione degli uffici, una migliore distribuzione delle risorse, un incremento delle performance dei magistrati e una maggiore attenzione alla soddisfazione dei cittadini sono, stando alla ricerca dell’ Irsig-Cnr, gli ingredienti di un sistema giudiziario più efficiente e veloce.
Negli ultimi 15 anni alcuni paesi europei – attraverso proposte di parlamenti, ministeri di giustizia, organi di autogoverno e gruppi di magistrati – hanno promosso delle importanti riforme che hanno un obiettivo comune: migliorare la qualità dei servizi erogati dagli uffici e delle decisioni prese dai giudici. I valori guida sono indipendenza e imparzialità, responsabilità e trasparenza, efficienza e “giusto processo”, orientamento al pubblico e accesso ai servizi. I provvedimenti presi seguendo questa linea hanno garantito ad alcuni paesi dell’Ue un elevato livello di fiducia nell’istituzione giudiziaria. Per rendersene conto basta dare uno sguardo agli indici di gradimento che i cittadini europei nutrono nella giustizia dei loro paesi. E’ un’indagine condotta da Eurobarometro: l’81% degli intervistati, in Danimarca, ha dichiarato di avere fiducia nel suo sistema giudiziario; quelli che non ne hanno sono il 17%. Con questi numeri la Danimarca si è aggiudicata il primo posto i classifica. L’ultimo gradino, con il 14% di ottimisti e l’80% di sfiduciati, è occupato dalla Bulgaria. Al secondo posto la Finlandia, la Svezia al terzo. L’Italia, di poco sotto alla Polonia, si è conquistata un venticinquesimo posto (su 33), con un 36% di intervistati che hanno fiducia nella giustizia e il 55% che non ne hanno affatto. I cittadini turchi, al settimo posto, sembrano essere più fortunati degli italiani. Insomma, i nostri tribunali ci lasciano particolarmente scontenti.
La ricerca ha individuato come, al tradizionale approccio alla qualità della giustizia, basato su meccanismi come il processo d’ appello e i controlli di legalità, si sono affiancati nuovi approcci di tipo “manageriale” che vedono la qualità nel raggiungimento di standard e obiettivi. In Olanda, ad esempio, è stato sviluppato un sistema per la misurazione dei carichi di lavoro degli uffici giudiziari, in modo da distribuire le risorse economiche sulla base dell’effettivo carico di lavoro dei tribunali, stimolandone la produttività. Gli uffici più efficienti vengono premiati, mentre quelli meno produttivi sono sanzionati. Nei paesi Scandinavi, il budget degli uffici è stabilito attraverso un negoziato tra i vertici dell’ufficio giudiziario e i funzionari del ministero, durante il quale si definiscono gli obiettivi dell’ufficio e le risorse su cui potrà contare per raggiungerli. L’introduzione del metodo manageriale però, è stato talvolta motivo di duri scontri politici, poiché le visioni “efficientiste” tendono a ridurre la giustizia ad una questione di tempi e costi. Per di più questa concezione della qualità finisce per contrapporsi ai tradizionali approcci giuridici, spesso incapaci di andare oltre la visione formalistica secondo la quale basta rispettare le norme per avere una giustizia di qualità.
Per superare l’impasse, l’Irsig-Cnr propone due strade: la prima, percorsa già da numerosi paesi europei, è stata quella di “chiedere agli utenti” di valutare i servizi erogati dagli uffici. La seconda, più innovativa, è basata sulla capacità degli uffici giudiziari di attivare processi di confronto fra i professionisti che operano nel servizio. In Finlandia e in Svezia, ad esempio, sono stati gli stessi giudici ad avviare questo processo, trasformando gli uffici giudiziari in “learning organisations”: attraverso incontri tra personale e giudici questi due paesi individuano le aree in cui è opportuno intervenire per migliorare la qualità del servizio, creano gruppi di lavoro per decidere quali cambiamenti si devono effettuare ed infine si valutano gli obiettivi raggiunti. I risultati che questo approccio ha garantito nei paesi scandinavi sono sorprendenti: incremento della produttività, sentenze più veloci, più soddisfazione sul lavoro, semplificazione delle procedure e anche maggiore uniformità nei giudizi su cause simili.
Risultati come questi, in Italia, sembrano fantascientifici. Basti pensare, hanno affermato i due istituti, che in Italia il dibattito sul “processo breve” è stato effettuato in totale assenza di studi indipendenti. Le risorse umane e finanziarie sono impiegate su base storica, senza fissare obiettivi precisi. Come se non fosse sufficiente, l’opinione che i cittadini hanno del loro sistema giudiziario, sembra non essere la principale preoccupazione delle rilevazioni ministeriali.
A questo punto, il Centro Studi e Ricerche sull’Ordinamento Giudiziario dell’Università di Bologna ha fatto un passo di più. Ha intervistato un campione di 460 magistrati (due terzi giudici e un terzo pubblici ministeri) per sapere la loro opinione sulla gestione secondo il modello “europeo” della giustizia. Risultato: i giudici sono tendenzialmente poco favorevoli a far valutare il loro lavoro a soggetti esterni al corpo giudiziario. In particolare, sembrano contrari alle politiche volte al potenziamento del Ministro della Giustizia (92% dei giudizi negativi), ai premi sulla produttività (62%) ed ai sondaggi rivolti agli utenti (45%). Insomma, a quanto risulta dall’analisi svolta, gli intervistati hanno mostrato di considerare alcune politiche di riforma potenzialmente pericolose per la loro indipendenza decisionale e gestionale.
Molte delle politiche europee fin qui descritte, per quanto virtuose, se trasferite al nostro paese, toccherebbero competenze che sono, allo stesso tempo, di Ministero della Giustizia e Consiglio Superiore della Magistratura. Ciò significa che richiederebbero una costante collaborazione istituzionale tra due organi che in Italia hanno spesso avuto difficoltà ad operare in simbiosi. I due istituti sembrano perentori su un punto: il risultato della ricerca conferma uno stato di sostanziale arretratezza del “sistema giustizia” italiano che continua ad allontanarsi dalle migliori pratiche adottate nei paesi europei.