La green economy è glamour ma forse è ora di occuparsi di cose più serie

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La green economy è glamour ma forse è ora di occuparsi di cose più serie

20 Ottobre 2010

 

Albert Einstein, uno dei più grandi geni del secolo scorso, ha con una caratteristica particolare che lo ha caratterizzato in maniera diversa rispetto a molti suoi colleghi: il senso dell’umorismo. Ormai anziano, affermato ed universalmente riconosciuto, fu intervistato da una giornalista a Princeton dove ha passato gli ultimi anni della sua lunga vita professionale. La ragazza, ammirata del genio che aveva davanti, gli pose varie domande e, a proposito della Teoria della Relatività, gli chiese ingenuamente come mai riuscisse ad avere così tante idee brillanti. Einstein, sornione, sorridendo sotto i suoi baffoni spioventi, rispose all’incirca così “signorina guardi che in tutta la mia vita io ho avuto una sola vera idea brillante (la teoria della relatività) ed ancora non sono riuscito a capirla completamente!”

A questo episodio ho pensato leggendo il libro di Lomborg “l’Ambientalista Scettico, non è vero che la Terra è in pericolo”. Infatti, egli riprende la definizione di follia che Einstein aveva dato con la semplicità che caratterizza le grandi menti: “follia è continuare a fare le stesse cose aspettandosi dei risultati diversi”. Lomborg lo ricorda per stigmatizzare l’approccio ottuso che da oltre diciotto anni il mondo avanzato, ed in primis l’Unione Europea, ha adottato e continua a seguire nei confronti del problema dei cambiamenti climatici.

Man mano che il tempo passa, i risultati scientifici si accumulano e con essi i dubbi interpretativi stanno prevalendo sulle certezze precedenti anche a dimostrazione che la Natura è molto più complessa di quanti tentino di forzarla a giustificazione delle propie idee scientifiche. La mitica Commissione dell’ONU, lo IPCC, mostra da tempo i propri limiti professionali derivanti da un approccio bulgaro che ha escluso nel corso degli anni ogni posizione dissenziente dal pensiero unico prevalente al suo interno. Peraltro non può cancellare le macchie gravi di comportamento che sono emerse negli ultimi anni e che ne minano la credibilità scientifica. Quanto al risvolto etico e di correttezza professionale che deriva da questa situazione, è meglio lasciar perdere.

Oggi nel mondo si spendono cifre da capogiro nella cosiddetta economia verde percorrendo però sempre le stesse strade, senza visioni nuove, rifiutandosi di affrontare la realtà per quella che è e non per quella che viene definita affinché le cose tornino. E difatti i conti non tornano e la natura va per la sua strada.

Nonostante queste chiare incongruenze che dovrebbero portare a riflettere, invece la burocrazia europea, non paga dello smacco di Copenhagen, rilancia proponendo un aumento dei livelli di riduzione della CO2, da 20% a 30%, che si vorrebbero vedere raggiunti nell’Unione. Di fatto, nonostante il gran parlare dei più, nella realtà la situazione è meno brillante e ben al di sotto delle speranze utopiche degli ottimisti ad oltranza che prevedevano l’affermazione finale della green economy, tanto affascinante a dirsi ma estremamente costosa. I suoi risultati finali non sono soddisfacenti e, soprattutto, questo approccio non è condiviso dai paesi in via di sviluppo desiderosi invece di raggiungere, in primis, livelli di produzione energetica “pesanti” e con le sorgenti primarie giuste, come hanno fatto i paesi ricchi prima di loro.

Non a caso, in questo momento di stallo di clima se ne parla molto poco nei media, e tutti gli addetti ai lavori concordano che la prossima riunione di Cancun a dicembre non potrà in ogni modo essere risolutiva ma rappresenterà soltanto, e al più, una fase interlocutoria intermedia.

Lomborg, applicando in positivo le conseguenze della definizione di follia di Einstein, per vederci più chiaro ed offrire un contributo alla verità senza condizionamenti, ha riunito un gruppo di studiosi che annovera anche dei premi Nobeli, in un Cenacolo, il Copenhagen Consensus, che ha scelto di affontare i problemi dell’umanità, incluso quelli climatici, non in maniera aprioristicamente ideologizzata, ma piuttosto con un approccio pragmatico individuando quali siano quelli più urgenti e quali le soluzioni più efficaci per poterli risolvere.

Quest’approccio ha preso in considerazione anche ed in parallelo l’analisi economica, tema poco curato in genere, producendo risultati inattesi in forte contrasto con la vulgata maggioritaria. Eccoli: la situazione è molto meno preoccupante di quanto venisse descritta. Di conseguenza sono contestate “le certezze” propinate dai guru dello IPCC e facilmente avallate dai politici più attenti a cavalcare le mode del momento che a considerare le informazioni in maniera critica verificandone la veridicità.

Un risultato ulteriore del gruppo di Copenhagen, che peraltro riconosce l’esistenza di problemi climatici senza però considerarli così preponderanti come spesso sono venduti, è quello che individua un legame inverso tra i primi e lo sviluppo economico: più quest’ultimo cresce, meno problemi si determinano, nonostante tutto, dalle variazioni climatiche. Questo fenomeno avviene grazie alla forte capacità di adattamento dell’uomo che si è andata sviluppando ed affinando nel corso dei millenni. Di più, risultato ancora più evidente ma al quale nessuno aveva prestato la dovuta attenzione sino ad ora, è la costatazione per la quale “ se sei un paese povero non hai i mezzi per affrontare le sfide; quando, invece la crescita c’è, un paese ha i mezzi per poter affrontare sul serio le sfide ambientali” e non soltanto quelle.

Se i conti economici e le stime sono corretti, ciò che colpisce nei risultati del Copenhagen Consensus è il costo necessario ad affrontare la sfida ambientale raffrontato ai benefici attesi: per ogni euro speso ne ritornano pochi centesimi. Risultato, questo, che lascia di sasso e dovrebbe far riflettere tutti, governanti e contribuenti.

Viceversa, se l’attenzione politica si orientasse verso altri grandi temi tragicamente irrisolti, i risultati sarebbero ben diversi: per esempio, per ogni euro speso per combattere seriamente la fame nel Mondo, il ritorno stimato sarebbe di 20 euro. E’ un dato agghiacciante: se fossimo ingenui sarebbe da chiedersi perché questo non accada e perché i politici non ci abbiano pensato?

Le risposte sono, purtroppo evidenti: con la green economye quello che la accompagna si movimentano enormi quantità di denaro che fa muovere industrie, banche, consulenti producendo ricchezza per alcuni e aria fritta per il popolo bue.

Combattere la fame nel Mondo ha solo una valenza umanitaria, riguarda nel migliore dei casi le coscienze dei più sensibili; però impegna poco o nulla i grandi interessi economici perché c’è poco da guadagnare, non ci sono mercati da creare e da gestire.

E poi la fame nel Mondo è un tema “che va bene per un sospiro, di tanto in tanto”, al più un piccolo contributo in denaro per tacitare la coscienza. E poi, siamo sinceri, la fame nel Mondo non è mica pura, pulita come l’economia verde, come e fonti rinnovabili che non inquinano; no la fame nel Mondo è “sporca”: basta guardare le foto degli Slums dell’Africa, le discariche abitate dell’India, o le altre migliaia di tragiche realtà.

Ma che siamo matti? E’ meglio continuare, senza allontanarci dai nostri salotti naturalmente, a riempirci la bocca di luoghi comuni, oltretutto parlare di cambiamenti climatici, comunque la metti, fa fino, intellettuale di grido e molto impegnato: senza impegno naturalmente.