La guerra a Trump, l’establishment Usa e le dimissioni del generale Michael Flynn

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La guerra a Trump, l’establishment Usa e le dimissioni del generale Michael Flynn

16 Febbraio 2017

La domanda ancora una volta non è tanto cosa si dicevano i diplomatici russi con il generale Michael Flynn prima che quest’ultimo diventasse consigliere per la sicurezza del presidente Donald Trump. Flynn ha prima negato di aver parlato con i russi delle sanzioni a Mosca, poi ha ammesso di averlo fatto, dimettendosi, la prima testa a cadere nella nuova amministrazione Usa. Il caso non è chiuso, la Fbi continua a indagare sulla vicenda mentre i media e giornali americani vanno all’attacco, chiedendosi se anche Trump e il vice Pence sapessero delle conversazioni ed abbiano mentito a loro volta. Il Cremlino nega ogni coinvolgimento. In ogni caso, non è un mistero che questa amministrazione voglia ripensare le relazioni con Mosca, sanzioni comprese.

Ma la domanda è un’altra: le intercettazioni effettuate dall’intelligence americana, che ascoltava le telefonate tra Flynn e i russi, erano una procedura legale? Che l’intelligence Usa ascolti i diplomatici russi è sempre accaduto, ma che si ascolti un privato cittadino americano, beh, questo più che la difesa della sicurezza nazionale fa venire in mente le operazioni di controllo di massa inaugurate da Bush figlio e proseguite da Obama, con la potente NSA in grado di ascoltare milioni di persone, capi di stato di altri Paesi compresi. La vicenda Flynn, inoltre, viene dopo le accuse lanciate da Obama sulle interferenze degli hacker russi nelle elezioni presidenziali Usa, con annessa sconfitta della Clinton, anche se, fino a oggi, nessuno è riuscito a trovare una prova concreta di queste trame oscure, del presunto “complotto” ordito dai membri del team Trump con i russi per impedire a Lady Hillary di vincere le elezioni. Né d’altra parte sappiamo con precisione cosa si siano detti di così grave Flynn e i russi.

L’impressione è che si continui a rimestare nel torbido per dare anzitempo la spallata a Trump. Basta leggersi un tweet di Bill Kristol, figlio di Irving, esponente di punta del movimento neoconservatore ed espressione di quel mondo politico e culturale trasversale nel suo rifiuto totale di Trump, come candidato e come presidente (all’epoca delle primarie repubblicane, il pensatoio di punta dei “neocon”, l’influente American Enterprise, organizzava seminari e incontri con i padroni di Internet, i big delle grandi corporation del web, per bloccare l’avanzata del Don su Internet). Secondo Kristol, è sempre auspicabile che la politica sia rispettosa delle regole democratiche e del dettato costituzionale, ma nella situazione attuale è meglio che il “deep state” prevalga sul “Trump state”, scrive sempre Bill. Il “deep state”, lo “stato profondo”, cioé le strutture della forza di un Paese, i servizi, la intelligence, ex generali e alti ufficiali magari in pensione, le burocrazie e i gangli vitali del potere a Washington, come pure il sistema giudiziario.

Messi tutti insieme, e con la copertura dei media, questi poteri incarnano oggi la vera opposizione alla amministrazione democraticamente eletta. Il caso Flynn è il primo esempio, riuscito, di questa strategia? Insomma, per farla breve, l’establishment americano non si piega ancora al nuovo presidente, nonostante i poteri forti siano stati travolti dal voto popolare. L’impressione è che ci siano apparati ancora fedeli a Obama o repubblicani ostili a Trump che agiscono all’interno delle istituzioni Usa un po’ come, all’esterno, nelle piazze delle grandi città americane, si organizzano “grandi” manifestazioni contro il presidente, con il sostegno di qualche miliardario di sicura fede democratica. Il Don finirà spodestato come accadde a Nixon? E’ ancora troppo presto per dirlo. Del resto, mentre gli fanno la guerra dentro e fuori il palazzo, nel giro di qualche settimana Trump ha già messo a segno una serie di colpi che da soli valgono quanto i tradizionali cento giorni della presidenza Usa.

Stop all’Obamacare, alla immigrazione clandestina dal Messico, all’arrivo di migranti dai Paesi sponsor del terrorismo, avanti con i gasdotti congelati da Obama, con meno regole nel funzionamento dello stato federale, con le operazioni antiterrorismo, e l’elenco delle promesse mantenute da Trump potrebbe continuare. Insomma, il Don più lo assediano, più lui rilancia e alza la posta, scompaginando i piani degli avversari. E’ già accaduto in campagna elettorale e sappiamo com’è finita, ha vinto lui. Ma stavolta il contesto è diverso. Trump è un presidente sotto assedio. E in una situazione instabile come quella che abbiamo appena descritto, ad andarci di mezzo pagando il prezzo più grande potrebbe essere la democrazia americana. Le regole e la costituzione che stavolta, per quelli come Kristol, passano in secondo piano.