La guerra al terrore si vince a Damasco e a Teheran (e non a Tripoli)
10 Settembre 2011
L’11 settembre non avevo intenzione di andare nel mio ufficio in centro. Doveva essere un giorno tranquillo da passare in casa a scrivere, ma quando – per telefono e per e-mail – cominciò ad arrivare la notizia degli attentati capii che quel giorno sarebbe stato tutt’altro che tranquillo. Andai dal barbiere – il mio amico Camillo di Sorrento – e guardammo insieme la televisione che trasmetteva le immagini degli aerei che si schiantavano contro le Torri Gemelle e il Pentagono e, poco dopo, l’esodo di massa di macchine e pedoni che si allontanavano da Washington per reazione alla paura di ulteriori attacchi, forse alla Casa Bianca, forse al Campidoglio. Mentre Camillo mi tagliava i capelli, mia moglie mi aveva telefonato per dirmi, con una voce che non potrò mai dimenticare, che la nostra cara amica Barbara Olsen era morta sull’aereo che aveva attaccato il Pentagono e che, incredibilmente, durante quell’orrore era stata al telefono con suo marito, il viceprocuratore legale degli Stati Uniti (il più importante funzionario legale del Paese).
Tutto ciò mi fece infuriare, salii in macchina e mi diressi verso il centro. Il traffico andava tutto nella direzione opposta e raggiungerlo fu facile. Rimasi in ufficio tutto il giorno. A quelli che telefonavano per dire "Dev’essere spaventoso" rispondevo: "Non fraintendete quello che sta accadendo qui; non siamo spaventati, siamo arrabbiati. Quella gente ha commesso un terribile errore". Eravamo davvero infuriati, e questo il mondo lo scoprì ben presto. Il presidente Bush diede voce eloquente alla nostra rabbia e mise in campo i nostri soldati per distruggere i talebani, sgominare Al Qaeda e dare una lezione a chiunque avesse in animo di ripetere l’attacco dell’11 settembre. Dopo di che, egli commise uno sbaglio strategico, rendendolo ancora più grave con un pesante errore tattico. L’errore strategico fu di abbattere il regime iracheno di Saddam Hussein invece di prendere di mira i tiranni iraniani. L’invasione dell’Iraq fu un doppio errore: fu una imponente operazione militare che garantiva di suscitare ostilità politica sia nell’Alleanza occidentale che in Medio Oriente, e che era indirizzata verso il bersaglio sbagliato. Se, come aveva affermato Bush (ma anche Blair), la nuova guerra del Golfo non era che il secondo capitolo di una guerra contro il terrorismo, allora era il regime di Teheran che avremmo dovuto abbattere. Sia gli esperti che i funzionari di governo erano (e sono ancora) concordi nel ritenere l’Iran il maggior finanziatore del terrorismo internazionale.
Non c’è, poi, molto da dubitare sul fatto che il regime iraniano sia stato direttamente coinvolto negli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti. La Commissione sull’11 settembre, e l’ex primo ministro britannico Tony Blair, avevano richiamato l’attenzione su questo coinvolgimento, senza tuttavia suscitare alcun interesse verso l’approfondimento della questione: non riconoscendo il ruolo iraniano, infatti, non potremmo più limitare le nostre discussioni di politica al programma nucleare iraniano. Saremmo costretti ad accettare il fatto che l’Iran ci stia attivamente dichiarando guerra. La gran parte dei politici occidentali è spaventata dalla prospettiva di “andare in guerra” contro l’Iran: l’arma più efficace contro gli ayatollah non è militare ma politica. È la stessa forza letale che utilizzò Ronald Reagan contro l’impero sovietico durante la guerra fredda: appoggiare gli oppositori del regime, sia a parole che, quando utile, finanziariamente, dando ai dissidenti la speranza che l’Occidente stia dalla loro parte e metta a disposizione i mezzi per portare avanti efficacemente una causa comune.
Tutto ciò, dopo l’11 settembre, non l’abbiamo fatto. E continuiamo a non farlo. Anzi, se si leggono le memorie del presidente Bush e del segretario alla Difesa Rumsfeld, risulta chiaro che il governo americano – per tacere di quelli europei – non ha mai preso in seria considerazione la possibilità di muovere contro i nostri principali nemici una guerra politica piuttosto che militare.
Per quell’errore strategico stiamo pagando un prezzo molto alto: i nostri soldati in Medio Oriente, uomini e donne, vengono uccisi da armi iraniane usate da iraniani o da delegati finanziati dagli iraniani, e la popolazione iraniana viene macellata a un ritmo ancor più intenso dal regime di Teheran. L’enorme errore tattico fu l’incapacità di comunicare in modo efficace con il pubblico americano e con quello, ancor più vasto, occidentale. Quell’errore venne giustificato attraverso lo slogan: «non guardiamo indietro, solo avanti». Anche quando nel deserto siriano vennero trovati proiettili d’artiglieria a carica biologica, l’amministrazione si rifiutò di confermarne l’esistenza. Questo fallimento venne più volte confermato durante il conflitto iracheno, quando i portavoce dell’amministrazione non riuscirono a ricordare all’opinione pubblica americana ed europea le ragioni della presenza in quelle zone (la risposta all’11 settembre) e l’importanza di una vittoria (per garantire che non ci sarebbe stato un altro 11 settembre). Come risultato, il dibattito cominciò a limitarsi ai dettagli della guerra in Iraq (o all’Iraq e ad Al Qaeda) e gli antagonisti dell’America, o in senso più stretto della politica americana, ebbero la possibilità di concentrarsi sugli inevitabili errori commessi sul campo di battaglia invece di affrontare la più ampia questione strategica.
Da quel momento in poi, il dibattito sulla politica americana è stato ristretto ai più minuti dettagli e la questione della guerra stessa – la guerra estesa, una guerra assolutamente globale – è stata a malapena sollevata. Dopo il pensionamento di Bush le cose non sono migliorate. Il presidente Obama ha ordinato il ritiro delle truppe americane dall’Iraq e promette di fare lo stesso con quelle in Afghanistan, il che significa che abbiamo combattuto la guerra per oltre un decennio, senza mai reagire all’arcinemico iraniano, nonostante ogni settimana si abbiano prove inconfutabili delle azioni criminali commesse dall’Iran in Iraq e in Afghanistan. Obama sta ripetendo lo stesso clamoroso errore del suo predecessore, condannandoci in tal modo a reagire alla guerra continua condotta dall’Iran contro l’Occidente in vista di qualche obiettivo futuro, in circostanze decise dai nostri nemici e, con ogni probabilità, in condizioni più difficili di quelle che c’erano l’11 settembre, o persino oggi.
Non c’è un solo leader occidentale che sembra aver elaborato una visione strategica coerente della sfida lanciata all’Occidente. Prendiamo, ad esempio, il caso della Libia. Invece di concentrare totalmente la nostra attenzione su Gheddafi e i ribelli, dovremmo pensare alla “grande guerra” nella quale siamo coinvolti. Quella guerra si estende dalla Somalia al Golfo Persico, dal Sudan in Egitto e da lì a Israele, Libano, Siria, Iraq, Iran e Turchia, sino al Nord Africa. Arriva al Sud America e all’America Centrale e alcuni dei suoi soldati sono senza dubbio presenti sul nostro territorio. Le tensioni e le passioni implicate in quella guerra hanno trasformato in campi di battaglia molti di quei paesi, ma dal momento che ci siamo rifiutati di vedere la guerra per quel che è, non siamo riusciti a comprendere chiaramente chi sono quelli che la combattono, né abbiamo dato una lettura realistica degli eventi ai quali assistiamo, capace di prevedere gli eventi futuri.
Di conseguenza, non sapevamo chi fossero quelli che dimostravano in piazza Tahir al Cairo, non sappiamo chi abbia fatto cadere la dittatura tunisina né chi siano i ribelli libici o quanti, nelle strade della Siria, stanno combattendo la dittatura di Assad. E quel ch’è peggio è che siamo in una posizione che ci consentirebbe di trarre enorme beneficio da questa guerra, ma o non sappiamo cosa fare, o scopriamo che in Libia potremmo anche vincere (rovesciare Gheddafi, dar potere ai ribelli, dare il via al solito ciclo fatto di nuova costituzione, nuove elezioni e nuovo governo) ma soccombere comunque, permettendo che vadano al potere nemici ancor più pericolosi del pittoresco colonnello di Tripoli. Dobbiamo vincere la grande guerra. Le decisioni che riguardano la Libia, come la Tunisia, l’Egitto, la Somalia, il Bahrein, lo Yemen e l’Arabia Saudita, per tacer di Cuba e del Venezuela, dovrebbero essere subordinate a una strategia seria, adatta ad una grande guerra e mirata, di volta in volta, a colpire i nostri principali nemici. Il cambiamento di regime a Tripoli è un nobile obiettivo, ma non è una missione strategica cruciale. Il cambiamento di regime dovremmo volerlo soprattutto in Siria e in Iran.
L’insurrezione globale
Dovrebbe essere chiaro per chiunque che ci troviamo ormai nel mezzo di una insurrezione democratica globale che ha molto in comune con l’“era della rivoluzione democratica” della seconda metà del XVIII secolo. A quel tempo ogni nazione occidentale era segnata da conflitti interni. I rivoluzionari democratici erano in contatto gli uni con gli altri, imparavano dalle reciproche esperienze e pianificavano strategie e tattiche. Ci riuscirono sia incontrandosi che, più comunemente, spedendo lettere anche attraverso l’oceano Atlantico (senza poter usufruire di quei social media a cui gli eventi attuali attribuiscono particolare centralità). Condividevano un linguaggio comune che era caratterizzato da parole come “libertà” e “democrazia”, e la gran parte di essi guardava alla Rivoluzione americana per trarre lezioni dalla lotta vittoriosa contro la Corona britannica.
Messe di fronte a un’insurrezione globale, anche le forze del vecchio ordine condivisero progetti e giudizi sul modo in cui affrontare una minaccia comune. Esse giunsero a sentirsi vittime di un enorme complotto, cosa non priva certo di fondamento, ma distante nella realtà dalle ragioni ipotizzate. Di certo ci fu un complotto politico-intellettuale (proprio come i Committees of Correspondence nell’America pre-rivoluzionaria), ma esso fu privo di quel “sottosuolo sovversivo” ben organizzato immaginato dai monarchici.
Oggi non è troppo diverso. Il regime iraniano crede che i suoi oppositori interni siano manovrati dall’esterno da oscure forze democratiche operanti a Washington, Londra e Gerusalemme. E si può esser certi che, presi dal panico, i tiranni di Damasco e di Caracas (dove tre settimane di sciopero della fame davanti agli uffici dell’Organization of American States hanno spinto Hugo Chavez a fare notevoli concessioni politiche) sono convinti che i soliti soggetti, quelli che sussurrano in inglese e in ebraico, stiano orchestrando tutta la manovra. Nonostante dovrebbero, non lo stanno facendo.
Non è un caso che la risposta di Assad alle sommosse in Siria sia la fotocopia della repressione iraniana del Movimento Verde nei quasi due anni successivi alle elezioni rubate del 2009. Dall’altro lato delle barricate, il popolo siriano appare determinato a continuare la lotta per impedire al regime d’instaurare lo stesso terrore che oggi opera in Iran. I sauditi hanno inviato aiuti a Mubarak e hanno esercitato pressioni su Washington affinché facesse lo stesso. Qualche informazione è trapelata, ma non c’è dubbio che, in canali più riservati, le informazioni e le strategie siano molto più ricche e numerose. Non nutro alcun dubbio sul fatto che iraniani, siriani e turchi agiscano sulla base di strategie coordinate, condividendo informazioni d’intelligence, proprio come i membri del network del terrore. Essi hanno due obiettivi: salvaguardare i regimi islamici che gli sono graditi e rovesciarne i nemici, prendendo le redini delle insurrezioni progressiste e trasformandole in modo che portino avanti i loro perversi obiettivi.
La grande insurrezione è mirata contro i governanti in carica, ma l’insurrezione non rappresenta per tutti una guerra per la libertà. Al contrario, molti di essi sono pronti al martirio per portare avanti la causa sostenuta da tirannie ancor più terribili, avvolte nella gloria di un nuovo califfato. Le proteste in Bahrein e in Giordania, come anche la guerra civile virtuale nello Yemen, sono finanziate dall’intelligence della Repubblica islamica iraniana e appoggiate dagli assassini di Hezbollah, dal Corpo delle guardie rivoluzionarie e dai loro delegati. E abbiamo già avuto modo di vedere gli islamisti egiziani mettersi in prima fila per rivendicare il controllo del paese.
Al momento è difficile separare i democratici dagli aspiranti creatori di un califfato, tranne nel paese più importante – importante per la libertà dei popoli del Medio Oriente e per la sicurezza americana – che è l’Iran. Tutti quegli esperti, tanto nel governo che nella stampa, quelli che avevano raccontato ai propri uditori che l’opposizione iraniana era stata schiacciata, sono stati di nuovo screditati, proprio come quando, nel giugno 2009, esplose per la prima volta nelle strade il Movimento Verde. Cosa ancor più importante, anche il regime, i cui leader si erano convinti di aver vinto, sa cose diverse. Ed è questo il motivo per il quale i leader verdi Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi sono stati rinchiusi in qualche posto segreto e tagliati fuori (almeno questo è quel che è stato detto alla Guida Suprema Ali Khamenei e al presidente Ahmadinejad) da ogni contatto con il mondo esterno, in particolare con seguaci e simpatizzanti. Dubito che quei posti siano del tutto inaccessibili; fra le forze di sicurezza i traditori sono molti ed esistono rapporti affidabili secondo cui ufficiali di alto livello delle Guardie rivoluzionarie hanno chiesto ai propri superiori – per iscritto – di non ordinare loro di sparare sui manifestanti.
Una lettera del genere, che implica uno strappo all’interno della gerarchia che governa la Repubblica islamica per quel che riguarda la gestione delle proteste, ha avuto ampia circolazione fra i ranghi delle Guardie rivoluzionarie, il corpo responsabile della difesa del sistema religioso. La lettera, una cui copia è stata esaminata dal «Daily Telegraph», è indirizzata al Generale Maggiore Mohammad Ali Jafari, il comandante in capo delle Guardie, e lo esorta a emanare disposizioni per le guardie e per i miliziani paramilitari Basij affinché gestiscano le proteste con moderazione. Con mia gran soddisfazione ho visto confermata questa notizia e nel corso della verifica sono stato messo al corrente del fatto che messaggi analoghi sono venuti anche da comandanti Basij. Se fosse vero, la strategia del “pugno di ferro” contro il popolo iraniano potrebbe non funzionare tanto bene in futuro come è già accaduto in passato.
L’opposizione iraniana gode di un sostegno interno molto forte e sta ricevendo incoraggiamenti dai leader sciiti in Iraq. L’ayatollah Jamal al-Din, seguace del grande ayatollah Sistani di Najaf (probabilmente la figura più stimata del firmamento sciita), ha esortato gli iraniani a rovesciare i propri governanti e ripristinare la libertà nella loro antica terra. Nelle sue parole echeggia qualcosa del linguaggio di Mousavi e meritano un’analisi accurata:
Cari fratelli! Non c’è differenza tra un tiranno che indossa una [corona], un tiranno che indossa un turbante e un tiranno che indossa il copricapo arabo tradizionale. I tiranni sono tutti uguali, qual che sia la loro lingua o il loro stile. Libertà e dignità sono le stesse per ogni popolo. E siete stati voi, voi del Nobile Popolo dell’Iran, i primi in Medio Oriente a ribellarvi contro la dittatura e la corruzione nel 1979. Oggi per voi è il giorno di riprendervi la vostra dignità, la vostra libertà e i tesori del vostro paese dalle mani di quei ladri che vi hanno rubato la religione e lo Stato.
È la voce dell’insurrezione democratica che parla. Se prevale, ci può essere ancora una speranza per un’autentica rivoluzione democratica su scala globale. Ma noi non ci impegniamo in questioni tanto rilevanti. Noi affrontiamo ogni sommossa nazionale come fosse un fatto separato, una circostanza a sé stante.
Ci sono molte ragioni per criticare Obama sulla questione della Libia, ma la più importante non viene mai menzionata: è aver sbagliato il campo di battaglia. I campi di battaglia che decideranno il risultato della grande guerra sono Teheran e Damasco, e su entrambi ci sono fronti aperti. Potremmo giocare un ruolo decisivo senza bisogno di bombardare alcunché, senza bisogno di mettere a repentaglio alcuna vita americana o europea, ma semplicemente garantendo sostegno politico, finanziario e tecnologico ai ribelli iraniani e siriani. I regimi dittatoriali sono vuoti, la gente ha dato prova di grande coraggio. Se noi – come Obama notoriamente insiste – siamo andati a fare la guerra in Libia per sostenere popoli che combattono per la propria libertà contro malefici dittatori, a maggior ragione dobbiamo aiutare gli iraniani e i siriani che stanno lottando contro un potere che uccide la loro gente e molti più americani di quanti ne abbia uccisi Gheddafi.
Il punto non è, dunque, denunciare una cattiva gestione della questione della Libia, ma sottolineare come essa non sia la questione principale. In realtà della questione principale non si è neanche cominciato a parlare. Non credo che Obama e le sue tre “Valchirie” (Hillary Clinton, Susan Rice e Samantha Power) vedano con chiarezza i tratti della grande guerra, ma spero che percepiscano la logica in base alla quale se è giusto difendere i libici, è ancora più giusto difendere iraniani e siriani. Un segnale positivo in questa direzione esiste. È il video di Obama rivolto al popolo iraniano in occasione della festa di Norooz: «Sono con voi», ha detto ai giovani iraniani in lotta contro il loro regime scellerato. Non più mani tese, a quanto pare.
Non è un bel momento, ma – come sappiamo tutti – è meglio essere fortunati che intelligenti. Se, pure attraverso il confuso sottobosco di un debole internazionalismo e dell’interventismo umanitario, giungessimo alla decisione di sfidare i nostri arcinemici, condividerei la scelta. Se poniamo fine al regno dei fanatici a Damasco e a Teheran, il mondo intero cambierà. E decisamente in meglio.
Se siamo riusciti a far crollare l’impero sovietico senza bombardare Leningrado, possiamo di certo abbattere le vuote tirannie dei nostri nemici mortali in Medio Oriente con gli stessi strumenti.
La Repubblica islamica di Khamenei è persino più fragile dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche di Gorbaciov. Se, come ho temuto per molto tempo, dovessimo finire per intraprendere una guerra militare contro l’Iran, questa sarà una testimonianza eloquente del fallimento occidentale nel comprendere la vera natura delle forze che l’11 settembre hanno attaccato l’America e nel creare una strategia per sconfiggere quelle forze.
Ma, dopotutto, è proprio questo quel che accade ogni qualvolta i nostri leader non fronteggiano adeguatamente situazioni strategiche gravi: il prezzo da pagare aumenta, come aumentano le sofferenze di milioni di persone sui campi di battaglia e al di fuori di essi. Davvero un destino terribile.
…
Continua a leggere l’articolo sul sito di Ventunesimo Secolo, rivista di Studi sulle transizioni.
Tratto da 11 Settembre. 10 anni dopo, Ventunesimo Secolo – Rivista di Studi sulle transizioni, Anno X, Numero 25, Giugno 2011. Tutti i diritti riservati
Traduzione Andrea Di Nino