La guerra al terrore sotto la lente della storia

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La guerra al terrore sotto la lente della storia

18 Maggio 2007

L’intervista di Emiliano Stornelli al generale Carlo Jean, oggi docente di studi strategici alla Libera Università Internazionale degli Studi Sociali “Guido Carli” (LUISS), tra l’altro insignito dall’UNESCO di medaglia d’oro per il suo operato in favore della prevenzione dei conflitti (1998), è tanto puntuale e dettagliata quanto priva di inutili orpelli ideologici o auspici moraleggianti (“La War on Terror americana può ancora vincere,” L’Occidentale, 16 maggio 2007). Non da storico, ma da brillante analista militare e strategico qual è, Jean chiarisce i termini della questione dopo quattro anni di guerra in Iraq e ben sei di intervento militare in Afghanistan.

Vale la pena di ricordarlo: l’invasione dell’Afghanistan è cominciata nell’ottobre 2001, quando un’alleanza formata da paesi membri della NATO (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Francia, Nuova Zelanda, Germania e Italia) e una Coalizione Settentrionale composta da partigiani contrari ai Talebani, ha reagito all’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 allo scopo di distruggere l’organizzazione terroristica islamista Al-Qaeda e di eliminare quel governo afghano che la proteggeva. Più che di una “Guerra al Terrore”, come la definì il presidente americano George W. Bush, si trattò dunque (e si tratta ancora) di una guerra ai terroristi e ai loro protettori e istigatori.

Ricordiamo anche che l’invasione dell’Iraq è iniziata due anni più tardi, nel 2003, a opera di una coalizione più ridotta, di cui fanno sostanzialmente parte Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia e Polonia. Anche se le motivazioni iniziali sono state diverse, non c’è dubbio che la Guerra in Iraq sia la continuazione ideale della Guerra in Afghanistan. Indubbiamente l’Afghanistan non è l’Iraq e c’è chi, soprattutto tra i governi europei di centrosinistra (ma in tale esercizio l’Italia è sempre più isolata), ama fare sottili distinzioni di forma. Ma come non ricordare che nella Seconda Guerra Mondiale, pur nella loro eterogeneità, la comune ideologia nazifascista di Germania, Giappone e Italia era ben più significativa delle loro distinzioni linguistiche, geografiche e culturali?

Ma torniamo al generale Jean e alla sua analisi. A guerre in corso, Jean ci dice che ciò che sostanzialmente non ha funzionato nelle previsioni della vigilia è stata la fiducia, certamente eccessiva soprattutto da parte americana, nella voglia di democrazia e nell’abitudine a usarne gli strumenti delle popolazioni liberate. Ci si era illusi (aggiungiamo noi) che l’islamofascismo dei Talebani dell’Afghanistan e il terrore dispotico del regime di Saddam Hussein nascondessero masse di disperati che non aspettavano altro che la caduta del regime per proclamare a gran voce quantomeno la Magna Charta del 1215 e per riversarsi felici e convinti alle urne elettorali. Da ciò, anche, la scarsa attenzione posta dagli alleati occidentali ai problemi del dopoguerra.

Jean ci spiega però anche quanto ha per ora funzionato ed è stato “un successo”. I gruppi terroristici legati direttamente a Al-Qaeda sono stati scompaginati e costretti a impegnarsi totalmente per la loro stessa sopravvivenza. Le armi di distruzione di massa non sono state trovate, ma ciò per il fatto che i terroristi non hanno più avuto la capacità di procurarsele o di fabbricarle. Gli attentati sul territorio degli Stati Uniti sono cessati completamente e (aggiungiamo noi) anche nel resto del mondo sono avvenuti in modo sporadico e di gran lunga inferiore alla volontà di chi li pianificava. Si tratta di successi di così ampia portata, dice Jean (e ci fa piacere che il generale confermi quanto noi avevano scritto sul sito www.magna-carta.it,”O-bama o Billary?”, 14 febbraio 2007), che il prossimo presidente americano, foss’anche un democratico, non imprimerà sostanziali mutamenti alla politica estera del suo paese).

Ma quanto durerà ancora la guerra? Jean spiega che si tratta ormai di una “guerra lunga e di logoramento” il cui termine è dunque imprevedibile. Siamo a sei anni dall’inizio (2001-7). Siamo già oltre la durata della Seconda Guerra Mondiale (1939-45), della Guerra di Corea (1950-3), della Guerra del Golfo (1991), ma ancora sotto quella della Guerra del Vietnam (1964-75), che fu anch’essa guerra di guerriglia e guerra in campo aperto. Coloro che spingono per il disimpegno tanto dall’Afghanistan quanto dall’Iraq lo fanno, almeno a parole, in nome del “pantano dal quale bisogna andar via il prima possibile” (Pino Sgobio, capogruppo del Partito Comunista d’Italia alla Camera dei Deputati). Tali “pacifisti” evitano accuratamente di spiegare le ragioni per le quali, e soprattutto contro chi, l’intervento fu a suo tempo deciso, e non soltanto dagli Stati Uniti. (Va da sé che in molti di questi “oppositori della guerra”, soprattutto di stampo europeo e nostrano, la simpatia per Talebani e terroristi islamofascisti, incluso Saddam Hussein, è certamente superiore a quella che essi provano per Bush e la democrazia americana.)

Guardando indietro ai sei anni di guerra, Jean ha già espresso un suo giudizio sull’errore “democratico” compiuto dagli alleati, e soprattutto dagli americani, il cui impegno su entrambi i teatri di guerra è certamente preminente. Giustamente però Jean evita di fare previsioni di lunga durata, perché sa bene che quello è compito non degli analisti, ma degli indovini e dei profeti, o, se si ha tempo di aspettare, degli storici che scriveranno a guerra finita. Quegli storici che in futuro racconteranno e spiegheranno la Guerra in Afghanistan e la Guerra in Iraq dovranno prima di tutto chiedersi quale fosse il ventaglio di opzioni allora ritenute possibili, tanto dal punto di vista materiale quanto da quello ideologico, e quali decisioni furono di conseguenza prese, nel 2001 e nel 2003, all’interno di tale ventaglio di opzioni.

Per fare due esempi relativi al passato lontano, ecco che tra le opzioni materiali di Giuseppe Garibaldi, per esempio, non c’era quella di usare gli elicotteri a Calatafimi, così come tra quelle ideologiche di Giulio Cesare non c’era quella di apprezzare la multiculturalità del leader gallo Vercingetorige. Ma per coloro che hanno deciso di intervenire nel 2001 e nel 2003, e che continuano a ritenere giusto l’intervento armato in Afghanistan e in Iraq, il cui scopo era annientare i Talebani, eliminare il regime di Sadam Hussein e aprire la strada all’instaurazione di un regime politico profondamente diverso, davvero c’erano altre possibilità di scelta?

Nel 2001 e nel 2003 l’opzione più facile per me sarebbe stata quella di sedermi in piazza a protestare contro una guerra astratta e lontana, dichiararmi contro la violenza in generale e sostenere la ragionevolezza di qualsiasi pace. Pur sapendo che il mio bel gesto non avrebbe avuto alcuna conseguenza reale, mi sarei certamente sentito a posto con la coscienza, come lo ero stato anni prima quando avevo protestato contro l’intervento americano in Vietnam. L’opzione più difficile era invece quella di dichiararmi a favore dell’intervento armato, pur sapendo che tale intervento avrebbe avuto un impatto reale sulle cose e sulle persone, e avrebbe magari provocato la morte di molti e indubbie e oggettive devastazioni. Ma non sempre l’inazione è sinonimo di “giusto” e di “meglio”. Fossi stato presente allora, avrei forse preferito che gli americani non sbarcassero ad Anzio? Mi sarei seduto a braccia conserte davanti al cancello di Dachau? Avrei chiesto la moltiplicazione dei patti Stalin-von Ribbentrop? E, per arrivare all’oggi, avrei impedito l’azione NATO in Yugoslavia e lasciato i musulmani bosniaci a loro stessi? E continuerò oggi a lasciare che i massacri del Darfur proseguano nell’indifferenza di tutti?

Francamente, sono stato e sono ancora contento che i governanti di tre paesi tra i più democratici e liberali del mondo (la Polonia non ha ancora quella tradizione, anche se non per colpa sua) abbiano deciso di intervenire per aiutare una popolazione a liberarsi dai governanti dittatoriali e sanguinari dai quali non riusciva a liberarsi da sola. Non ho alcuna remora ad affermare che il sistema di valori sul quale i Talebani e il regime di Saddam Hussein basavano il loro potere era infinitamente peggiore ed era anzi la negazione di quello vigente in Occidente, alle cui fondamenta stanno i valori essenziali della liberta e del benessere individuale, nonché della democrazia rappresentativa.

L’unico dubbio che avevo allora, e che continua a rimanermi, è quello che l’allora primo ministro canadese, il liberale Jean Chrétien, aveva espresso nel 2003 alla vigilia dell’intervento alleato in Iraq: “Il mondo è pieno di regimi fascisti, illiberali e sanguinari. Se cominciamo con l’Iraq, dove ci fermeremo?” Strategicamente, Chrétien aveva ragione. Sono tuttora convinto, però, che il ragionamente di Chrétien e dei tanti che la pensano come lui vada rovesciato. Sarebbe bello potere intervenire dovunque ci siano regimi fascisti, illiberali e sanguinari. È quanto molti tra i nostri padri e i nostri nonni hanno fatto durante la Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo nessuno, Stati Uniti in testa, ha oggi la forza di farlo, né la capacità militare e politica di gestire fino in fondo un processo di tal genere se non per interventi mirati e di breve periodo. Anche le guerre in Afghanistan e in Iraq, purtroppo, lo stanno ampiamente dimostrando.