La guerra civile chiamata Resistenza

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La guerra civile chiamata Resistenza

27 Aprile 2015

La Resistenza fu una “guerra civile”, come l’ha definita lo storico Claudio Pavoni concludendo un dibattito duro e senza esclusione di colpi, e come tale ogni sua ricorrenza è segnata da aspre polemiche. A parte l’ovvia contestazione di essa da parte di chi tuttora si colloca “dall’altra parte”, cioè dalla parte della Repubblica di Salò e del ventennio fascista, c’è anche l’animus polemico di chi reputa che la Resistenza non è stata abbastanza valorizzata.

C’è poi un filone politico-culturale che ritiene la Resistenza  una “rivoluzione tradita”, nel senso che “in nuce” essa doveva avere un esito rivoluzionario, la cosiddetta “resistenza rossa”: partendo da questo filone un nucleo estremizzato di esso approdò alle Brigate Rosse, come testimonia tutta la vicenda “dell’appartamento” in cui si riunivano i ragazzi di Reggio Emilia (Franceschini e Gallinari) e la confluenza nel terrorismo di sinistra (“gli antenati” della Rossana Rossanda) di uno spicchio della corrente “secchiana” del PCI.

Riteniamo che dopo settant’anni sia auspicabile avere sulla Resistenza una posizione laica. Partiamo da una valutazione di fondo del tutto positiva della Resistenza e dei combattenti partigiani e da una valutazione negativa della Repubblica di Salò e dei suoi combattenti. Non possiamo sottacere la scelta fondamentale: coloro che si batterono per la Resistenza erano contro i nazisti, cioè contro coloro che avevano una visione totalitaria dello stato, esercitata in modo aberrante, ed erano portatori anche di un antisemitismo militante che ha provocato i sei milioni di morti della Shoah, l’annientamento di ebrei, di rom, di omosessuali. 

Su tutto ciò non si può scherzare. In Italia, poi, essere dalla parte della Resistenza voleva dire essere vicini a chi liberò davvero il paese, cioè all’esercito anglo-americano, portatore, malgrado mille contraddizioni, dei valori della libertà e della democrazia.  Invece coloro che si schierarono per la Repubblica di Salò erano dalla parte sbagliata da tutti i punti di vista: difendevano il retaggio di uno stato autoritario qual era lo stato fascista, erano alleati con i nazisti, cioè con una terribile deriva della storia europea, tenevano il campo non solo combattendo, ma anche avendo nuclei organizzati nei quali si praticava sistematicamente la tortura: Via Tasso, la banda Koch etc. 

Quello che va rilevato nella esperienza della Repubblica di Salò è che in essa andarono a militare, quando era ormai evidente quali erano le sorti della guerra, migliaia di giovani  in nome dell’onore della patria e della fedeltà ai patti a suo tempo stipulati. Si è trattato del sacrificio di migliaia di giovani che sono andati incontro alla morte, un sacrificio che va riconosciuto e rispettato. Fu questo anche il centro della riflessione assai contestata svolta da Luciano Violante.

Detto tutto ciò, però, bisogna anche rilevare che dentro la Resistenza si confrontarono, talora anche armi alla mano (vedi la tragedia di  Porzus, e tanti altri episodi) due ipotesi di fondo che derivavano non solo dal il dibattito politico-culturale italiano, ma dalla divisione di fondo che attraversava la grande alleanza antinazista e antifascista costituita da un lato dagli USA e dall’Inghilterra, e dall’altro dall’URSS. 

Secondo alcune delle correnti esistenti nella Resistenza (il filone cattolico, quello liberale, quello militare, una parte di quello azionista costituito da Ugo La Malfa o da Ferruccio Parri quello socialdemocratico) la Resistenza doveva portare alla fondazione di uno stato liberaldemocratico basato sul pluripartitismo competitivo e su una molteplicità di diritti di libertà. 

C’era poi un’altra interpretazione della Resistenza secondo la quale la lotta armata era una sorta di missile a due stadi: in un primo tempo essa  doveva essere condotta contro i nazisti e i fascisti, ma successivamente doveva portare alla dittatura del proletariato, cioè del partito comunista. Su questa linea di fatto era attestato il gruppo dirigente del PCI al Nord guidato da Longo e da Secchia che da sempre, dagli anni ’30, avevano espresso all’interno del PCI le posizioni di sinistra più radicali e settarie. 

Era fortissima la suggestione titoista su questa parte del gruppo dirigente del PCI: in Yugoslavia Tito stava nel contempo conducendo la lotta  contro i nazisti e contro i monarchici alleati agli inglesi. Senonché c’era una grande disparità di forza militare fra l’esercito titino e le Brigate Garibaldi. Non a caso per surrogare questa debolezza militare ma per radicalizzare comunque la “guerra civile” in corso i comunisti scelsero la via del terrorismo individuale portato avanti dai gappisti e a Roma realizzarono l’attentato di via Rasella. 

Via Rasella fu sottesa dalla scelta, a nostro avviso politicamente aberrante, di fare un attentato devastante per far fallire l’operazione vaticana di “Roma città aperta” che, partendo dall’andamento ormai segnato della guerra  puntava ad un trapasso relativamente “pacifico” fra la ritirata tedesca e l’arrivo degli alleati. Quell’attentato provocò invece la bestialità criminale dei nazisti, dalle Fosse Ardeatine ad una serie di eventi tragici per Roma. 

E’ sempre in questa chiave, quella della “doppia guerra civile”, che va letto ciò che avvenne dopo il 25 aprile in Lombardia, in Piemonte, specie in Emilia Romagna. Da un lato continuò a lungo fino al 1947 l’uccisione dei fascisti, dall’altro lato, in Emilia Romagna, si andò anche su un’altra via: furono uccisi giovani democristiani, preti, socialdemocratici e specialmente agrari, nella chiave della eliminazione di ogni alternativa alla presa del potere dei comunisti. 

Tutto ciò, però, era stato contraddetto alla radice (ma le tendenze storico-politiche non vengono temporalmente ricollocate con immediatezza quasi che ci si trovi  a svolgere una partita a scacchi), da ciò  che già nel 1994 aveva deciso Stalin. Stalin partiva da una visione strategica della politica.  

Negli anni Venti all’interno del movimento comunista e anche a causa dei rapporti di forza internazionale (vedi nel 1920 la sconfitta dell’Armata Rossa alle porte di Varsavia ad opera dell’esercito polacco guidato dal generale Pilsudki) fu sconfitta la tesi di Trotsky della “rivoluzione permanente” e prevalse quella di Stalin per la costruzione del “socialismo in un paese solo”. Stalin, però, non aveva rinunciato all’espansione dell’Unione Sovietica e del comunismo. Allora, in seguito agli esiti della seconda Guerra Mondiale, egli puntò a realizzare questa espansione per via geopolitica. 

Nel 1944 c’era già in nuce il patto di Yalta e la divisione del mondo, e anche dell’Europa, sulla base dell’occupazione militare realizzata dagli eserciti ango-americani o dall’Armata Rossa. Ora già nel 1944 era del tutto evidente che l’Italia veniva liberata dall’esercito anglo-americano e in quel campo sarebbe rimasta a lungo, mentre l’Armata Rossa stava occupando l’Europa dell’Est. Fu così che nel marzo del 1944 Stalin chiamò Ercoli (pseudonimo di Togliatti nella clandestinità) e gli suggerì la “svolta di Salerno”, cioè la linea moderata del PCI a partire dal sostegno al governo Badoglio, in nome della comune lotta antifascista e antinazista. 

Fu così che gradualmente, molto gradualmente, le tendenze rivoluzionarie di Longo e di Secchia furono riassorbite e superate. Quindi noi dobbiamo a Stalin se alla guerra civile fra fascisti e antifascisti non ne seguì un’altra fra comunisti e anticomunisti. A Togliatti, che era un vecchio seguace di Bucharin – leader delle posizioni “di destra” del PC, a suo tempo debitamente fucilato – quella scelta di Stalin andò benissimo, meno bene a Longo che però la accettò totalmente, e a Secchia che la subì. 

Fu in seguito a quella scelta che il PCI collaborò alla costruzione dello stato democratico, alla stesura della Carta Costituzionale etc. Di conseguenza al di là dell’agiografia, la Resistenza e la “guerra civile” in Italia hanno avuto un andamento assai drammatico e contraddittorio.

(Tratto da Il Garantista)