La guerra di Hollywood contro Bush comincia a Baghdad

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La guerra di Hollywood contro Bush comincia a Baghdad

09 Dicembre 2007

Per registi e produttori hollywoodiani la guerra al terrorismo di Bush se non esistesse bisognerebbe inventarla. In un momento di vacche magre come questo per il cinema americano, che da un decennio ripete se stesso, più o meno bene, con la fine delle grande saghe come “Rocky” e “Rambo”, cosa poteva esserci di meglio che tentare di ripetere con Iraq, Afghanistan e in genere la “war on terror”, l’operazione propagandistico-retorico-cinematografica che dalla prima metà degli anni ’70 è stata messa su con i film che hanno raccontato la guerra nel Vietnam?

Certo bisogna considerare che il ’68 è lontano e il pacifismo di oggi non può contare su testimonial come Bob Dylan e Joan Baez ma deve accontentarsi di Manu Chao e di Bono degli U2. Poi c’è il piccolo particolare che negli anni ’70, come si scoprì in seguito, il pacifismo militante era pagato a piè di lista da Mosca. Ma, come si dice, mai dire mai. D’altronde Sean Penn in Iran a fare il pagliaccio, ignorando gli scontri di piazza in cui sono stati malmenati davanti ai suoi occhi gli studenti anti Ahmadinejad, già ci è stato.

Un giorno magari scopriremo che anche tutto questo garantismo sulla sorte dei terroristi islamici, tutto questo sdegno anti Guantanamo e Abu Ghraib, è stato finanziato, magari con capitali sauditi e iraniani. Il detto  “pecunia non olet” vale anche per le major di Los Angeles. Anzi soprattutto per loro. Le quali, a differenza che con il Vietnam, stavolta non hanno avuto neanche la pazienza di aspettare la fine di questa guerra al terrorismo per tirarne su cinici consuntivi da trasformare in sceneggiature. Così come era stato fatto con i film d’azione dell’epoca, dal “Cacciatore” ad Apocalypse now”. Questo anche per motivi legati alla carenza di soggetti cinematografici da colossal vendibili a scatola chiusa.

Così si è dovuto intervenire “a guerra in corso”. E ciò spiega perchè solo negli ultimi due anni siano stati sfornati una decina di titoli, tutti preceduti da battage pubblicitari suggestivi, molto “fit” per farne successi di repertorio. Venerdì, ad esempio, è uscita nelle sale l’ultima fatica del 2006 in tal senso, “Lions for lambs” di Robert Redford. Presentata ovviamente in pompa magna pacifista alla Festa del cinema dal duo democratico Redford – Veltroni. Detti anche “il bello e la bestia”. E’ una delle storie che sta meno in piedi, lenta noiosa e pieni di psicologismi e sensi di colpa banali e consumati all’ombra di un’università molto democratica in cui Redford si compiace di recitare il ruolo del professore saggio. Con due storie che si intrecciano: la prima della giornalista televisiva Janine Roth (Meryl Streep) che viene convocata dal “cattivo”, cioè il candidato repubblicano alla presidenza statunitense, Jasper Irving (Tom Cruise), perché la donna si presti a fare da megafono “embedded” alle nuove staretegie yankee in Afghanistan. La seconda quella del professore di Università americana Stephen Malley (lo stesso Redford) e del suo studente migliore ma più cinico, Todd (Andrew Garfield), che insieme discutono serratamente dei massimi sistemi della vita. E del necessario impegno civile e politico che deve caratterizzare un buono studente che voglia avere tutti 30 e lode. Specie se il professore è un attivista del partito di Hillary Clinton. Sullo sfondo i due “colored” della facoltà diretta dal professore, impersonato come si diceva con grande compiacimento da Redford, finiti volontari in Afghanistan per soldi e per dimostrare agli Stati Uniti di essere più patrioti degli altri. E che naturalmente ci rimetteranno le penne. Tutto per il lieto fine della trama anti americana.

E l’anti americanismo “senza sé e senza ma” contraddistingue anche un’altra pellicola presentata a Roma e in uscita a gennaio: “Rendition”, che sembra la storia riveduta e scorretta del sequestro dell’imam integralista Abu Omar. Il regista Gavin Hood molto furbescamente ricostruisce la vicenda di una “extraordinary rendition” di un innocente, invece che di un terrorista vero e  proprio come succede più verosimilmente nella realtà, con toni da film giallo e d’azione.  E la pellicola è fatta per piacere a grandi e piccini insinuando il veleno anti occidentale proprio nel messaggio neanche tanto subliminale della trama. In cui si vede la moglie del rapito vagare di burocrazia in burocrazia all’inutile ricerca di notizie dello scomparso.

A proposito di ideologia anti Bush, anche il Festival di Venezia non si è fatto mancare nulla in tal senso. Basti pensare che il grande pubblico fra poco, prima di Natale per l’esattezza, potrà vedere la pellicola di Brian De Palma, cioè “Redacted”, vero pezzo forte del repertorio propagandistico di cui sopra. Perché nasce da una storia vera:  lo stupro di un’adolescente irachena e il massacro della sua famiglia da parte di alcuni marines statunitensi, annoiati e drogati, che registrano in video quell’orribile strage che finirà in rete, su You Tube. E poi rimbalzerà nei cosiddetti  blog indipendenti.

Da giorni poi, battendo sul tempo Redford, i produttori de “La valle di Elah”, anche esso presentato al Lido, registrano il “quasi tutto esaurito”, in America e in Europa. Il film stavolta è preso dalla fantasia malata di sensi di colpa di  Paul Haggis che pretende di descrivere la presunta crudeltà di cui possono essere capaci i giovani americani che abbiano vissuto l’esperienza del conflitto in Iraq. Un pensionato, reduce del Vietnam, fa l’investigatore per scovare gli assassini del figlio Mike, un soldato appena rientrato dal fronte. Il suo cadavere viene trovato fatto a pezzi, e il cellulare nelle mani del padre contiene le immagini e i filmati che mostrano le violenze compiute dal pargolo e dai suoi camerati nelle azioni di guerra  ai danni dei civili iracheni. Anche qui lieto fine anti americano: il figlio è stato ucciso proprio dai commilitoni che hanno fatto la guerra e le brutalità sui civili iracheni insieme con lui. Naturalmente tutto avviene  per sordidi motivi legati alla  droga e all’alcoolismo. Che poi sarebbero l’ “american way of life” secondo Hollywood.

Del reinserimento nella vita quotidiana di tre reduci dell’Iraq pretende di occuparsi anche  “Home of the Brave”, di Irwin Winkler, mentre Mike Nichols in “Charlie Wilson’s War” dirige un cast eccezionale di premi Oscar (Tom Hanks, Julia Roberts e Philip Seymour Hoffman) per una vicenda del recente passato: l’invasione sovietica in Afghanistan. Dalla quale però si trae il paralellismo con la missione Nato degli anni attuali.

Infine si nutre una grande aspettativa antiamericana per altre due fatiche idelogico cinematografiche: il documentario