La guerra nell’islam si gioca in Bahrain
15 Marzo 2011
Ciò che sta accadendo in queste ore nel piccolo arcipelago del Bahrain dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che oggi non si combatte uno "scontro di civiltà" tra islam e occidente bensì un conflitto interno al mondo arabo e musulmano, una "guerra mondiale islamica". L’attenzione delle cancellerie internazionali e dei media globali si è concentrata sulla controffensiva scatenata in Libia da Khamis, il figlio del Colonnello Gheddafi che sta riconquistando la ribelle Cirenaica. La Libia è senz’altro un microcosmo della guerra mondiale islamica, su diversi piani, sociale, religioso, etnico, tribale, e su quello delle alleanze strette (o meno) con le potenze occidentali. Ma non è soltanto della Libia che dovremmo preoccuparci. Il vero fronte delle guerre nell’islam è il Baharain.
L’arcipelago è una monarchia che ospita la base della Quinta Flotta americana ed è un importante hub petrolifero. Anche a Manama, come nelle altre capitali del mondo arabo, è scoppiata una rivolta che nasce dal desiderio dei giovani, dei lavoratori e delle donne, di avere maggiore libertà. Solo che il Bahrain è al centro della contesa fra le due grandi potenze del mondo islamico, l’Arabia Saudita e l’Iran, che influenzano e quindi determinano le proteste di questi giorni. La piazza di Manama è in maggioranza sciita e riscuote il tacito appoggio della teocrazia iraniana. La monarchia al potere, invece, è un’elite sunnita protetta apertamente da Casa Saud. Due giorni fa i sauditi hanno fatto entrare in Bahrain una lunga colonna di automezzi militari con il compito di garantire l’ordine nel Paese. L’invasione ha scatenato le ire dei manifestanti e ci sono stati due morti negli scontri, che si aggiungono alle altre vittime della repressione di stato registrate in precedenza.
Ieri il governo iraniano ha richiamato l’ambasciatore svizzero e quello saudita per avere chiarimenti. Le feluche svizzere svolgono attività diplomatica a Teheran per conto degli americani ed è evidente che l’Iran ritiene gli Stati Uniti il deus ex machina dell’operazione saudita. Nonostante gli inchini di Obama, ultimamente i rapporti fra Washington e Ryad si erano un po’ affievoliti: ai monarchi del Golfo non è piaciuta la fine che gli americani hanno fatto fare all’alleato Mubarak, la Casa Bianca non ha gradito che i Saud abbiano offerto asilo ai despoti del nordafrica. L’invasione del Baharain però rinsalda la vecchia alleanza, di fronte a un Iran che a sua volta cerca di completare l’accerchiamento di Israele e ha fatto di tutto per alimentare le rivolte nel Golfo. Teheran vuole diventare lo stato-guida dell’Islam: il fatto di aver stroncato nel sangue e nella paura la propria rivoluzione interna, la "green revolution", ora gli permette di esaltare e di sfruttare quelle scoppiate in casa d’altri.
Il blitz saudita cambia le carte in tavola. Gli iraniani non si aspettavano una prova di forza del loro vicino e da questo momento per Teheran sarà più difficile portare avanti la sua campagna di propaganda e le operazioni coperte utili a destabilizzare le petrocrazie del Golfo, strumentalizzando la battaglia per la libertà per acquistare un maggiore peso geopolitico. La militarizzazione saudita del Baharain mette Teheran davanti a una scelta: provocare una escalation continuando a fare pressioni sui partiti e i partitini sciiti che sono alla opposizione a Manama? Gli abitanti dell’arcipelago potrebbero non essere motivati quanto gli egiziani; la rivolta sarebbe un flop, com’è avvenuto in Libia. Pensare ad una operazione navale in grande stile per spaventare i Saud? Nel Golfo ci sono anche gli americani, che quanto a mezzi e truppe probabilmente avrebbero la meglio. Un’azione diversiva contro Israele? L’eccidio di Itamar, in West Bank, in teoria va in questa direzione anche se stabilire un legame diretto fra mandanti iraniani ed esecutori palestinesi sembra azzardato.
Teheran non può permettersi di pestare troppo i piedi agli americani. Il sogno dei mullah è che gli Usa lascino l’Iraq e che Baghdad finisca finalmente nell’orbita iraniana. Ma con i chiari di luna del mondo arabo, Obama potrebbe rallentare ulteriormente la ritirata dall’Iraq, complicando ulteriormente la vita ad Ahmadinejad. Durante i suoi due mandati il presidente iraniano ha sempre usato l’arma di una politica estera muscolare per mascherare la grave crisi economica e sociale del Paese. Ora, con la fronda conservatrice interna che si è messa di traverso, l’Onda verde sempre pronta a rispuntare nelle piazze, e le truppe saudite dispiegate nel Golfo, Ahmadinejad ha ben poco da stare allegro.
Come ha fatto giustamente notare Max Boot sulla National Review, il presidente Obama aveva chiesto ai regnanti del Bahrain di dialogare pacificamente con i manifestanti, ma la casa regnante locale si è sentita legittimata dal pugno di ferro saudita nel sudest della penisola arabica, per mandare al diavolo il dialogo pacifico con gli oppositori. Gli Stati Uniti e l’Europa si sono mostrati forti con i deboli (Mubarak e Ben Alì) e deboli con i forti (Gheddafi), legittimando l’operazione repressiva dell’Arabia Saudita, il più retrivo e feudale degli stati islamici sunniti. Così, ancora una volta, abbiamo dovuto scegliere il male minore. Sostenere un vecchio re e i suoi successori pur di contenere l’avanzata degli iraniani nel Golfo. In guerra bisogna pur scegliere da che parte stare. Il problema della guerra mondiale islamica è che non sarai mai dalla parte giusta. I sauditi avrebbero dovuto armare l’insurrezione di Bengasi ma hanno preferito usare il loro esercito per riportare l’ordine nel cortile di casa.