La laicità liberale è diversa dal laicismo (pseudo) libertario di Repubblica
16 Maggio 2009
Da tempo è in piena fioritura una saggistica critica del cristianesimo, della Chiesa cattolica e dei suoi dogmi, che, dinanzi ai pericoli dell’interferenza vaticana negli affari italiani, intende fermamente ribadire la laicità dello Stato e la libertà di coscienza che ispira la nostra Carta costituzionale. La società occidentale è in crisi, si riconosce, ma il vuoto di valori che sembra portarla alla deriva non dipende certo dal fallimento del ‘progetto 89’ ma semmai dalla sua imperfetta realizzazione. In ogni caso, non può consentirsi, per citare Stefano Rodotà,<una delega in materia di valori fondativi della società non solo alla dimensione propriamente religiosa, ma all’entità Chiesa> alla quale viene <così chiesto, consapevoli o no, di colmare un vuoto ormai evidente nella sfera della politica>. E’ un discorso ampiamente condiviso da un gruppo sempre più esteso di intellettuali, da Gustavo Zagrebelsky a Luciano Pellicani, da Piergiorgio Odifreddi a Carlo Augusto Viano, da Giulio Giorello a Umberto Eco. Tutti, con diversi accenti e riferimenti storici e filosofici, denunciano il <clima di crescente subalternità in cui la stessa parola ‘laico’ finisce <con l’essere fastidiosa o sospetta>. Ognuno ovviamente è libero di pensare e di scrivere ciò che crede, purché il gioco sia a carte scoperte e non ci si presenti col biglietto da visita <della cultura laica di matrice liberale> quando col liberalismo non si hanno rapporti di parentela.
La tesi che intendo sostenere è che tramontati i ‘grandi racconti’—ieri il comunismo, l’altro ieri il fascismo– il laicismo stia diventando l’ultima trincea di una concezione giacobina, e quindi illiberale, dello Stato che, spesso, col martellante richiamo ai ‘diritti’, soffoca il coro sempre vivo e vegeto di quanti inneggiano ‘A la lanterne!’. Di qui la preoccupazione di molti autentici liberali di distinguere la laicità che sta a fondamento della loro filosofia politica—e che nelle parole di Cavour trova ancora la sua più classica formulazione:<libera Chiesa in libero Stato>–dal laicismo pseudo libertario di chi, per dirla con Piero Ostellino,<vorrebbe riorganizzare il sistema di diritti civili attraverso la protezione di scelte personali trasformate in diritti. Ma non si accorge che la ‘moltiplicazione dei diritti’ di qualcuno comporta sempre una moltiplicazione dei doveri di qualcun altro, col risultato di ridurre gli spazi di libertà per tutti, invece di accrescerli. Trasforma il ‘liberalismo delle libertà’ in ‘liberalismo dei diritti’. Che è, poi, la riproposizione del conflitto fra la ‘libertà da’ (liberale), come non impedimento (e che non costa) e la ‘libertà di’ (democratica), che è un prodotto della politica (e che la politica fa pagare)>.
A leggere con attenzione l’odierna letteratura laicista, ci si accorge di un topos ricorrente: dal richiamo alla civiltà del dialogo e della tolleranza, che è l’anima del liberalismo dell’800 e del ‘900, si arriva, a passi felpati, a un’etica politica che, col mondo di Benjamin Constant o di Luigi Einaudi, non ha più nulla a che vedere. Quale liberale, oggi, potrebbe non riconoscersi in quanto scriveva Carlo Arturo Jemolo, un cattolico legato all’azionismo, nei saggi ora riproposti da Carlo Fantappié col titolo Coscienza laica (Ed. Morcelliana)?
La laicità, rilevava lo storico e giurista romano in un saggio del 1960, è <la dottrina che, riconoscendo l’esistenza di numerosi raggruppamenti e società minori alle quali ciascuno si lega in modo diverso concedendo a questa o a quella i propri sentimenti, considera come necessità suprema l’esistenza di una società più larga, comprendente tutte quelle società minori e presieduta da un sistema organizzativo, lo Stato. Regola di tale società sarà quella di mai chiedere al cittadino le sue convinzioni religiose (essendo la religione materia estranea alla società retta dallo Stato) così come mai lo Stato interverrà, aiutando od ostacolando i raggruppamenti religiosi> E‘ la stessa regola della libertà < quella di lasciare libero gioco alle opinioni, di dare alle minoranze di oggi la possibilità di divenire la maggioranza di domani. E questa regola esige non solo eguale libertà, ma eguale dignità per tutti i cittadini. Essa esige che lo Stato non sia legato ad una ideologia, che non pronunci dichiarazioni di fede. Esige che siano escluse dalle regole del gioco la filosofia di Stato, la verità di Stato e, naturalmente, la religione di Stato> Una lezione non dissimile veniva impartendo Guido Calogero nei suoi magistrali saggi raccolti in ‘Filosofia del dialogo’ e nella memorabile rubrica ‘Quaderno laico’ da lui tenuta sul ‘Mondo’ di Mario Pannunzio.
Oggi di dialogo, di pluralismo, di tolleranza attiva, di diritti si parla sempre più spesso ma si ha, spesso, l’impressione che tutte quelle belle cose siano la testa d’ariete intesa a sfondare le porte della muraglia borghese, con i suoi privilegi e con i suoi pregiudizi, col suo uso spregiudicato della logica di mercato e delle ‘garanzie della libertà’ viste come marchingegni per impinguare il conto in banca. Insomma come la democrazia,’ner sentimento de certi’,è un metodo per elevare intellettualmente e moralmente le masse e non una mera registrazione dei loro bisogni (quasi sempre indotti dai ‘persuasori occulti’ al servizio dei soliti padroni delle ferriere), allo stesso modo, il ‘dialogo’ è apprezzato per la sua capacità di ‘convertire’, di indurre le persone a spogliarsi degli abiti di egoismo e di indifferentismo etico, propri della nostra tribù occidentale e italiana, per <aprirsi agli altri> in una prassi che sarebbe empio assimilare allo scambio o al volgare ‘bargaining’.
E’ per questa ragione che i ‘costi’ della tolleranza e dell’incontro delle ‘culture’ non entrano mai nel discorso pubblico come se le rinunce degli individui o il ridimensionamento dei loro diritti fossero scontati o pacifici, come la fermata del mezzo davanti al semaforo rosso.
In tal modo, la laicità, insensibilmente diventa altro da sé: dal non diritto di imporre agli altri una qualsiasi impegnativa concezione del mondo slitta nel diritto di imporgli quella che realizza tutti i valori ‘buoni’, la libertà, la giustizia sociale….la stessa laicità, appunto. Così negli scritti di Rodotà e di altri illustri costituzionalisti della sinistra critica, essa diventa né più né meno che lo spirito santo che insuffla la vita nella Costituzione italiana , risolvendosi, in sostanza, nel commento ammirato dei suoi aurei principi e dei suoi sapientissimi articoli. Ne deriva non senza coerenza la promozione della scuola pubblica a ‘organo costituzionale’ –riprendendo una espressione usata da Piero Calamandrei– giacché, in questa logica ‘laica’, < l’istruzione è un diritto fondativo del modo d’essere cittadini, dunque una precondizione della democrazia; la scuola è il luogo dove ci si forma, si acquisisce sapere critico> <il momento in cui si avvia la costruzione dell’eguaglianza, del riconoscimento degli altri>. Poiché la nostra Magna Carta è tra le più avanzate del mondo, in quanto coniuga i valori più alti elaborati dal pensiero politico occidentale la libertà e l’eguaglianza, Montesquieu e Rousseau, il merito e la giustizia sociale, Saint-Simon e Marx, il tutto condito con la cristiana ‘fraternité’, la laicità viene a coincidere con lo ‘Spirito delle Leggi’(costituzionali): non si configura più come astensione liberale dal convertire altri alla fede ma come impegno a riconoscersi tutti in un fascio di valori che però si pretendono—e qui è il sofisma—‘al di sopra’ di tutte le ‘dottrine’. Sennonché, ci si chiede, quella ‘terza via’ che, nell’interpretazione progressiva della nostra Costituzione, non lascerebbe gli individui in balia del mercato e del capitalismo selvaggio e, nello stesso tempo, ne garantirebbe i diritti soggettivi (tranne l’insignificante habeas corpus, annullato dalla carcerazione preventiva), non è essa stessa un’ideologia pur quando non vuole essere etichettata come tale?(La coltivarono, tra gli altri, Maestri che mi furono molto cari come Norberto Bobbio e il citato Guido Calogero)
‘Senza uguaglianza la democrazia è un regime’, ha rilevato Gustavo Zagrebelsky in uno degli articoli-saggi che viene scrivendo su ‘Repubblica’.<Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall’uno all’altro, è l’atteggiamento di fronte all’uguaglianza, il valore politico tra tutti i il più importante e, tra tutti, oggi il più negletto, perfino talora deriso a destra e a sinistra. Perché dall’uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi dipende il rovesciamento del loro contrario. Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti. Senza uguaglianza, la società dividendosi in strati diventa gerarchia Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione. Nell’essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale>. Se questa fosse la filosofia della Costituzione italiana, e quindi il punto d’approdo del ‘pensiero laico’, nel nostro sistema politico non ci sarebbe più posto per Isaiah Berlin o per Friedrich Hayek che su tutto potevano transigere tranne che sull’aggancio dei diritti dell’uomo e del cittadino non all’uguaglianza ma alla libertà. Del pari non si vede quale tutela avrebbe, sul piano della società civile, quel mercato capitalista che produce e riproduce senza tregua le ineguaglianze di status, di reddito, di prestigio. E’ vero che i giuristi progressisti non si lasciano scoraggiare dall’obiezione e ricorrono a una sorta di ‘integralismo laico’: pure loro si preoccupano della libertà e vogliono metterla al sicuro nel santuario dei ‘principi fondamentali’ ma, anche per renderla efficace e non solo platonica, intendono dosarla con altri valori come la sicurezza sociale. Già ma è proprio questo il punto: il dosaggio, perché di ‘dosaggi’ ce ne sono di vari tipi e tutti dipendono dal tempo, dalle circostanze, dalla ‘cultura’ in senso antropologico della classe dirigente e di quella diretta, dalle risorse a disposizione di un sistema politico e, in democrazia, da quello che preferisce la gente, da ciò che scelgono i consumatori—di merci o di ideologie—sulla base dei loro bisogni, delle loro tradizioni, degli usi e costumi etc. Il dialogo ‘laico’, iscritto nel dna liberale, sta nella libera e franca discussione dei ‘dosaggi’ in un quadro istituzionale che rende i diritti dei cittadini indisponibili e prestatuali (sempre metaforicamente, però, nel senso di un accordo, radicato nella storia e rinnovato nel tempo,che li consideri quasi ‘naturali), una discussione affidata, in ultima istanza, al dibattito politico e culminante nella cabina elettorale. <E’ la democrazia, bellezza!> si potrebbe dire parafrasando l’Humphrey Bogart del celebre film di Richard Brooks, L’ultima minaccia (1951).
In riferimento alla società multietnica, che si sta mettendo piede anche da noi, Rodotà, nel volume ‘Perché laico’ (Ed. Laterza) ha osservato che <la separazione non può divenire esclusione: di persone, idee, fedi. Non basta tollerare: bisogna anche riconoscere e, soprattutto, ‘includere’. Qui, come altrove, emerge con forza l’altro grande tema di oggi, quello del conflitto tra la società dell’esclusione e quella dell’inclusione.> Ma perché queste espressioni dovrebbero veicolare <un’idea rinnovata di laicità>? Chi—cattolico, laico o laicista che sia– non è favorevole all’inclusione? In discussione non è l’<affare> in quanto tale—vedere felici famiglie senegalesi che passeggiano in riva al mare nelle belle giornate domenicali è uno spettacolo che può dispiacere solo a un razzista con gravi disturbi della personalità—a dividerci sono i costi, le ‘regole’, i sacrifici che siamo disposti a fare—dal momento che nessun pasto è gratis e non lo è nessuna cura ospedaliera–, le contropartite che riteniamo necessario chiedere agli ‘esclusi’ che vogliamo includere. E se il problema è questo come impedirsi di pensare che la laicità democratico-giacobina, lungi dal favorire il ‘dialogo’, alimenti un atteggiamento di crociata e d’intolleranza nei confronti di quanti alzano il prezzo dell’inclusione, senza neppure chiedersi se, per caso, essi non abbiano qualche buona ragione da far valere. Se davvero <il riconoscimento reciproco è sostituito dall’esasperazione della propria identità> e <il confronto dalla distanza>, forse occorre chiedersi le ragioni del <contrapporsi ferocemente l’un l’altro> senza pretendere che al tavolo del dialogo siedano da una parte le vittime e dall’altra i carnefici, da una parte chi vuole pane e lavoro e dall’altra i biechi sfruttatori di carne da cannone.
Sentire le ragioni di tutti, rendersi conto dei bisogni di tutti, far incontrare tutti: benissimo! E’ sempre stato il programma dell’autentico pluralismo liberale. Non sembra, però, che sia questa la ‘civic culture’ di ‘Repubblica’, alla quale i giuristi citati recano quasi ogni giorno il loro prezioso contributo di idee e di analisi: chi non le condivide è complice del regime totalitario ‘morbido’ che si sta allestendo nel nostro paese e vittima del suo veleno nichilista. Se questa è la <laicità della mente>, meglio il dogmatismo dei Gesuiti!