La laicità va difesa. Ma non coi luoghi comuni dei progressisti

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La laicità va difesa. Ma non coi luoghi comuni dei progressisti

La laicità va difesa. Ma non coi luoghi comuni dei progressisti

15 Febbraio 2008

Ho
sempre  letto con grande attenzione la
produzione intellettuale – saggi ed articoli – di Gian Enrico Rusconi. Il suo
spirito problematico – così lontano dallo stile profetico della sua collega a ‘La Stampa’, Barbara Spinelli,
l’Hannah Arendt dei Parioli -, il suo sguardo sofferto sul mondo sempre più
complesso che ci sta davanti, la sua umiltà da autentico studioso d’antan, mi hanno portato, da tempo, a
considerarlo una felice eccezione nel supponente e decadente mondo accademico
in cui ci troviamo, io e lui, a vivere. E, tuttavia, non da ora, c’è qualcosa
che non riesce a convincermi del tutto in questo impenitente ‘cacadubbi’, come
una volta ebbe simpaticamente a definirsi (e a definirmi).

A
chiarirmi di cosa si tratta giunge ora, quasi rivelazione improvvisa, la
lettura del suo meditato editoriale del 13 febbraio, Democrazia tra guelfi e ghibellini. Dopo averlo ripassato più di
una volta, mi sono convinto che il limite di Rusconi si compendia in una sola
parola: la retorica. Una buona, positiva, retorica volta a ingenerare,
nell’animo dei lettori, comportamenti virtuosi e abiti civili di tolleranza, e,
tuttavia, pur sempre una retorica, almeno nella misura in cui allo scienziato
politico e sociale si sovrappone l’intellettuale impegnato, che non rinuncia a dare
un’anima alla nazione, che “così com’è, non piace”, per riprendere le parole di
una grande coscienza infelice del primo Novecento, Giovanni Amendola.

Per
quanti intendono diversamente la funzione dei ‘lavoratori della mente’ non
basta dire, come si legge nell’articolo, “non mi permetto di dare giudizi
morali” (che poi risultano inequivocabili in ogni brano), bisogna fare qualcosa
di diverso: mostrare il dritto e il rovescio delle cose, le ragioni delle speranze
e delle paure collettive, quali interessi e valori si riconoscono in certe
posizioni culturali e politiche e quali altri in altre. In ogni caso, non
sembra corretto parlare, al di là dell’apprezzabile tono dimesso, in nome della
“nostra fragile e preziosa democrazia” come se Rusconi e quanti la pensano come
lui si trovassero nel ridotto della Valtellina, a difendere l’ultima trincea
del patriottismo repubblicano assalito da ogni parte. Per molte questioni di
etica pubblica accennate nell’articolo, infatti, possono prospettarsi  metodi e soluzioni diverse, senza che
nessuno, in questo nostro mondo segnato dall’incertezza, possa dire di avere la
‘verità’ in tasca (anche perché, come insegnava Uberto Scarpelli, l’etica è senza verità, come anche il diritto e la
politica).

Per
Rusconi, che interviene nel dibattito sulla laicità avviato dagli editoriali di
Aldo Schiavone su ‘Repubblica’ e di Ernesto Galli della Loggia sul ‘Corriere
della Sera’, il problema più importante oggi in Italia è costituito dall’intollerabile
attivismo  della Chiesa cattolica che già
“una decina di anni fa (quando non c’erano né teo-dem né teo-con) […] stava
assumendo il ruolo di supplenza di religione civile che avrebbe alterato i
rapporti convenzionali tra società civile e politica”. La laicità, spiega il
politologo, una volta attributo di ideologie “di matrice liberale e/o
socialista” ora in  via di estinzione,
deve diventare un sostantivo autonomo, al fine di candidarsi a “nuovo
fondamento della democrazia”. Solo in tal modo si può contrastare “il farsi
avanti della Chiesa che non esita a mettere in scena pubblicamente la pretesa
della sua verità. Contro di essa c’è soltanto la fragile ostinata esperienza di
donne e uomini che intendono seguire sommessamente le indicazioni della loro
coscienza. Il loro unico punto di riferimento e di difesa è il principio
costituzionale del pluralismo”.

Come
si vede, all’analisi pacata si sostituisce un racconto drammatico, l’eterno topos del piccolo Davide (le donne e gli
uomini “che intendono seguire sommessamente le indicazioni della loro coscienza”)
contro il grosso insidioso Golia (“la gerarchia ecclesiastica” che “sfrutta la
congiuntura politica, la fragilità culturale e la ricattabilità della classe
politica”), una mitologia che gronda giudizi di valore ma non getta alcuna luce
sui fatti e le loro connessioni. Non a caso il discorso si ‘attacca’ a una di
quelle parole magiche del nostro tempo, il pluralismo, che nulla spiega e su
ogni recesso del sociale getta i suoi fumi (intellettualmente) tossici.

Per
spiegare “quello che afferma positivamente il pluralismo” laico (per
definizione?), Rusconi non esita a servirsi dei luoghi comuni che pubblicisti e
giuristi di regime come, Claudio Magris, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà
producono in quantità industriale. “In democrazia – scrive – la discriminante
fondamentale tra i cittadini non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi
riconosce e garantisce la legittima pluralità delle visioni e degli stili
morali di vita (come recita in linguaggio diverso l’art. 3 della Costituzione)
e chi viceversa si sente investito della missione di orientare in modo
autoritativo l’ethos pubblico, dichiarando come ‘non negoziabili’ i propri
valori – senza assumersi la responsabilità delle conseguenze che derivano alla
qualità e funzionalità del sistema democratico”.

Belle
parole, non c’è che dire. Hanno solo un difetto, quello delle definizioni che
un tempo la sinistra dava della destra, definizioni in cui nessun uomo di
destra – che non fosse un nostalgico delle leggi razziali, dei campi di
sterminio, della fortezza Europa etc. – avrebbe mai potuto riconoscersi. Nella
fattispecie, chi, se non qualche cattolico integralista della profonda
provincia italiana, alzerà la mano riconoscendosi nel tipo umano che “si sente
investito della missione di orientare in modo autoritativo l’ethos pubblico”? E
quanto a dichiarare “non negoziabili i propri valori” non sono, piuttosto,
certi giuristi iperprogressisti, a riguardare determinate pretese (e sia pur
legittime e comprensibili) di particolari classi di individui come ‘diritti
naturali’- e quindi da inserire nella Costituzione – da non doversi sottoporre
%0Aal democratico conteggio delle teste, se non in riferimento alla loro modalità
di attuazione?

Tra
le famiglie politiche italiane, che tra poco scenderanno in campo l’una contro
l’altra armate, Rusconi ne può indicare qualcuna che “non riconosce e
garantisce la legittima pluralità delle visioni e degli stili morali di vita”?
In realtà, con questi toni retorici e predicatori, non si fa un solo passo
avanti sulla via di una ordinata convivenza civile ma si alimentano unicamente
vecchi odi e rancori, dando a intendere che, tra noi, ci sono delle mele marce
che non vogliono “far funzionare in modo solidale le regole della convivenza”,
giacché si ostinano a non riconoscere il “presupposto che la molteplicità delle
‘visioni delle vita’, delle ‘concezioni del bene’ o della ‘natura umana’ non è
una disgrazia pubblica […] cui non ci si deve rassegnare, ma l’essenza stessa
della vita democratica”. E’ questo il granello di sabbia del ricercatore, che
guarda i processi sociali sine ira ac
studio
? E’ questa la sfida dell’impopolarità che essi intendono affrontare,
sulle orme di quel Raymond Aron attorno al quale la cultura accademica francese
stese un cordone sanitario durato quarant’anni?

Se
si vuol lasciare il comodo e ovattato mondo della ‘retorica ufficiale’, la via
da seguire è un’altra e consiste nel rimettere negli scaffali dei classici del
liberalismo frasi, come quelle riportate da Rusconi, che avrebbero trovato
d’accordo persino il liberalconservatore François Guizot, per mostrare le
difficoltà reali, le contraddizioni inevitabili, i limiti invalicabili delle
nuove (o risorte) divinità contemporanee, come la Tolleranza e il
Pluralismo. Questa sarebbe la vera laicità del pensiero: mostrare che ci sono
interessi e valori in oggettivo conflitto, che sarebbe arbitrario disporli in
ordine gerarchico, che, in mancanza di un’Autorità universalmente riconosciuta
e facilmente individuabile (non solo il Vangelo di Domineddio ma anche il
neo-contrattualismo di John Rawls) non resta che assistere al libero gioco
delle influenze e  rimettersi, per le
decisioni finali, al voto della gente – senza, peraltro, incorrere nella
tentazione di accusare di qualunquismo l’uomo della strada quando mostra di non
essersi liberato dai suoi ‘pregiudizi’ e dalle sue ‘superstizioni’.

 Il problema del nostro tempo, mai affrontato
seriamente dai paladini del pluralismo e del multiculturalismo, è quello del “fin
dove”. Tolleranza per tutte le “visioni e gli stili morali di vita”, d’accordo,
ma fin dove? Sono tollerabili, ad esempio, la mutilazione genitale o la
poligamia? Se qualcuno volesse modificare la 194 per renderla – quale Giuliano
Ferrara & C. s’immaginano (a torto) che sia – un mezzo di controllo delle
nascite, non ci troveremmo dinanzi a “valori soggettivamente legittimi”, che
una maggioranza elettorale avrebbe diritto a imporci, ma che renderebbero,
nondimeno, la convivenza tra portatori di filosofie diverse assai difficile?

Come
vado ripetendo nelle pagine de ‘l’Occidentale’, non solo in Italia ma in tutta
l’Europa, il problema è particolarmente complicato dal fatto che i ‘modelli di
vita’ scelti da ciascuno non sono affar suo ma diventano, spesso, affar nostro
in virtù di uno stato sociale che dispensa generosamente beni e servizi a
quanti non sono in grado di procurarseli. In tal modo, qualora si
riconoscessero, se non la poligamia, i diritti delle mogli di un poligamo a
determinati sussidi da parte della comunità, il cittadino che, per nulla
commosso dalle vicende dei patriarchi dell’Antico Testamento e dalla storia dei
mormoni e di Salt Lake City, giudicasse l’istituto in questione moralmente
riprovevole, sarebbe tenuto, attraverso l’esazione fiscale, a sostenerne
l’onere. (Ovviamente il problema non si porrebbe in una società libertaria a
360 gradi, in cui ciascuno non dipendesse che da se stesso e non chiedesse
nulla agli altri – modello difficile da realizzare nel nostro paese dove, tra
le altre geniali invenzioni ideologiche, non manca neppure lo statalismo
libertario). E un discorso, in parte analogo, vale per il matrimonio gay con diritto di adozione: le vicende
private di un individuo sono affar suo ma, nel momento in cui una diversa
scelta di vita pretende il riconoscimento pubblico e, pertanto, attiva una
serie di tutele giuridiche e di prestazioni sociali non gratuite, il ‘privato’
diventa ‘pubblico’. Non se ne esce chiedendo alla politica di fare un passo
indietro rispetto al diritto ma chiedendo al diritto di fare un passo indietro
rispetto alla politica: le leggi possono pure prendere atto dei costumi più
diversi e ‘anomali’ ma, per farlo, in democrazia,  si richiede il consenso manifesto dei
cittadini, che può essere dato o meno senza che nessuno debba sentirsi autorizzato,
in caso negativo, di gridare allo scandalo, alla violazione dei diritti, al
ritorno a una concezione regressiva della ‘natura umana’.

Espressioni
come “nessuno deve imporre i propri valori” sono gusci vuoti. Di fatto, in
democrazia, la maggioranza impone sempre, attraverso le leggi, i propri valori
alla minoranza: in Italia, per fare un esempio significativo, alla minoranza
liberale è stato imposto un servizio pubblico radiotelevisivo, di cui farebbe
volentieri a meno. Ad essere decisive, in questo come in altri casi, sono
l’investitura democratica dei governanti statalisti che hanno deciso di
conservare l’ente radiofonico creato dal fascismo e la possibilità concessa ai
partiti fautori del libero mercato di rivederne radicalmente l’assetto, qualora
risultassero vincitori in una competizione elettorale.

Il
fatto è che, per la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani, l’età
sacrale della politica, per dirla con Augusto Del Noce, non è ancora finita.
Terminato il duello epocale tra Occidente democratico e Oriente totalitario
(che, peraltro, ha visto quasi tutti i chierici schierati dalla parte del
secondo), c’è un nuovo nemico da battere, l’ingerenza ecclesiastica nella vita
politica. Che tale ingerenza sia innegabile – e spesso irritante e priva di
misura – è un fatto, ma che essa sia diventata il pretesto per nuovi
radicalismi e nuove intolleranze ideologiche (avvolte, beninteso, nelle
retoriche della tolleranza) è altrettanto scontato. All’SOS-Racisme della
Francia la nostra cucina politica sta contrapponendo l’SOS-Papisme, senza però
un anticorpo alla  Pierre-André Taguieff
che ne smascheri le strategie.