
La legge elettorale non è roba per i vili

26 Gennaio 2020
Tutti vorremmo affidare alle rosee dita dell’alba elettorale un responso sicuro, maggioranze blindate, vincitori e vinti. Appartiene a tutti il desiderio di un sistema politico meno votato alla concertazione e più, forse, alla decisione. Insomma, la certezza per i cittadini che il segno sulla scheda non sia un contributo a tattiche ed impantanamenti, ma a visioni, programmi e strategie. Ciò che è comprensibile è oltremodo verificabile e dunque democratico.
Dove sta il limite di questo ragionamento? Nel pensare che una formula elettorale possa da sola e prodigiosamente costruire stabili asseti parlamentari, a fronte di un sistema dei partiti nebulizzato in fin troppe particelle, spesso ridotte ad un individuo e a pochi intimi.
Vi ricordate della maggioranza possente che ha dato vita al quarto governo Berlusconi, scioltasi come neve al sole, non tanto per la pungente azione dell’opposizione, ma per quelle crepe interne che sono divenute fossati. Ecco, nemmeno il meccanismo ultra-sintetico del “porcellum” è stato strumento sufficiente a dare al voto elettorale la certezza di una corrispondete maggioranza abbastanza forte da sostenere saldamente chi si trovava al posto di comando, soprattutto in un tempo, come era quello, di spaventose pressioni esterne.
Il fatto è che i sistemi elettorali non possono non essere valutati con occhio organico e complessivo, cioè ne vanno misurati gli effetti non semplicemente perché nominalmente indicati come più rappresentativi ovvero più sintetici (proporzionali o maggioritari, usando una definizione che ormai molti, a ragione, considerano inadeguata), ma in rapporto alle logiche del sistema dei partiti e alle modalità di selezione della classe dirigente.
Chiariamoci bene. Una legge elettorale che proponga effetti di sentesi, con un sistema di premi e razionalizzazione del voto, non è detto né dimostrato che automaticamente imponga al sistema stabilità, soprattutto se ad essa non corrisponde un modello di partiti grandi e rappresentativi ed un voto adeguatamente polarizzato.
Certo, la formula elettorale può aiutare ad assicurare la stabilità, ma è da illusi pensare che si possa forgiare il sistema politico a colpi di maggioritari e proporzionali, cambiando le regole del gioco a seconda della convenienza politica del momento: negli ultimi trent’anni abbiamo modificato sei volte il nostro sistema elettorale (contando anche le leggi elettorali di risulta delle due sentenze della Corte costituzionale in materia elettorale, la 1/2014 e la 35/2017), quando il sistema uninominale cosiddetto “secco” è utilizzato per l’elezione del Parlamento di Westminster ininterrottamente da metà Ottocento.
E veniamo proprio all’intervento dei Giudici costituzionali, che molto ha fatto discutere in questi giorni. La decisione della Consulta era facilmente prevedibile, contando la granitica giurisprudenza in tema di referendum in materia elettorale, che ne esclude l’ammissibilità nel caso in cui la “normativa di risulta” (quanto resta a seguito dell’effetto ablativo del referendum) sia idonea a garantire il rinnovo in ogni momento dell’organo costituzionale elettivo. Cosa che in questo caso difficilmente poteva essere sostenuta, vista la necessità, a seguito del positivo esito referendario, di modificare e prevedere nuovi collegi, rispetto a quelli già istituiti dalla legge Rosato. Aspettiamo le motivazioni della Corte, ma l’esito di questo tentativo poteva facilmente dirsi scontato, per motivi diversi da un’azione politica dei Giudici costituzionali, come qualche commentatore ha voluto sostenere.
Dovremmo sempre auspicare che la Corte costituzionale, nelle sue decisioni, si conformi all’orientamento costante della sua giurisprudenza. Infatti, per un organo costituzionale non legittimato direttamente per via democratica, l’unica forma di controllo possibile sta proprio nella verificabilità delle proprie scelte, cioè nella loro adesione ad una costante linea interpretativa, che in questo caso non varia da decenni. Per dirla con Chesterton: «se desideriamo proteggere i poveri dovremmo essere a favore di regole fisse e di dogmi chiari. Le regole di un club di tanto in tanto sono a favore dei membri più poveri. La tendenza di un club è sempre a favore di quelli ricchi». Paradossalmente chi sperava in una decisione diversa della Consulta, l’avrebbe voluta agente politico, pronta a pronunciarsi in contraddizione con le regole chiare che garantiscono il nostro ordinamento costituzionale.
Al di là di tutto, è errato pensare che la decisione sul “referendum Calderoli” sia uno schiaffo alla previsione di modelli elettorali sintetici in Italia. Si misura in Parlamento la volontà politica di superare un modello prevalentemente rappresentativo e proporzionale, se vogliamo ancora pensare che non debba essere la Consulta a far da balia ai partiti. Purché certo si parta dalla consapevolezza che la formula elettorale è servente al sistema politico e ne può orientare solo parzialmente le vicende se essa non è valutata in rapporto al sistema dei partiti. La tifoseria maggioritario/proporzionale non ha senso se non fa i conti con questo concetto.
A parere di chi scrive, il dibattito oggi va riaperto,tutto in chiave politica, sulla necessità di assicurare al paese un sistema strutturato di alternanza al governo (e farlo nei giorni in cui si ricorda la figura di Bettino Craxi appare ancor più significativo!), ragionato ben oltre il semplice modello elettorale. Il superamento progressivo della logica di coalizione è in questo senso essenziale e va costruita pur a piccoli passi. Il bipartitismo, assai più del bipolarismo, può assicurare un fondato avvicendamento di differenti parti politiche al governo del paese. Per assecondare e promuovere questo processo dovremmo immaginare un sistema elettorale che, pur con assegnazione proporzionale dei seggi, preveda collegi plurinominali molto piccoli, così da premiare i partiti più grandi. Se va poi previsto un premio di maggioranza esso andrà assegnato alla lista e non alla coalizione. Ha abbastanza coraggio la Politica?