La “leggenda” di McCain può battere il nuovismo di Obama
05 Febbraio 2008
“Tu
non devi avere paura. Io ho distrutto quattro jet da combattimento e non mi
sono mai schiantato al suolo. Con me sei al sicuro”. Quando i supporter
repubblicani ascoltano frasi del genere capiscono perché alle prossime elezioni
voteranno per il senatore John McCain. Viene in mente “il padre” di La Strada, il romanzo di McCarthy, un uomo pronto a dare la vita per
proteggere suo figlio dal male e dai nemici della libertà. “L’America è stata
attaccata da forze depravate e malvagie che si oppongono a ogni nostro
interesse e odiano ogni valore che sentiamo caro”, ha detto McCain dopo l’11
Settembre.
Se
fosse per la stampa e i grandi telegiornali italiani le presidenziali americane
del 2008 avrebbero già un vincitore assoluto, il senatore Barack Obama. Tutti
ne parlano, tutti lo amano, sembra quasi che in America esista solo lui. Non è
così. Secondo un rilevamento fatto da Time nel gennaio 2007 McCain è più familiare di Obama all’opinione
pubblica. La stampa degli Usa lo adora. Otto anni fa, all’epoca delle primarie
repubblicane contro Bush, McCain girava in autobus (the Straight
Talk Express) sfidando i
giornalisti a sottoporgli ogni genere di domanda. Ha sempre saputo sfruttare i
media per imporre la sua immagine fausta e testarda. È passato per il Saturday Night
Live e gli show di Jay Leno
e David Letterman.
McCain
è terribilmente superstizioso. Da quando i vietcong centrarono il suo jet su
Hanoi combatte una personalissima battaglia contro il destino baro e la
malasorte. Addosso ha tante medaglie quante sono le ferite. Se vincesse sarebbe
il più anziano presidente degli Usa, un settantenne che per sua stessa ammissione
è “rattoppato peggio di Frankenstein”. Il contrario di Obama che invece si
gioca la carta vincente della giovinezza. “A volte – ha confessato McCain – il
mio senso dell’umorismo è fuori luogo e questo potrebbe essere un problema”.
Nato a Panama nel 1936, se venisse eletto infrangerebbe un altro record:
diventare il primo presidente degli Stati Uniti venuto al mondo fuori dagli
Stati Uniti. McCain preferisce ricordare che negli anni Sessanta ha trascorso
più tempo in Vietnam che in America. Cinque lunghi anni di torture e prigionia.
Sarà vecchio ma è ancora indistruttibile.
La
vulgata dei telegiornali italiani è che la sua corsa verso la Casa Bianca sarà
un percorso a ostacoli perché il senatore godrebbe di scarse simpatie tra
l’establishment repubblicano e la base del movimento conservatore. In
particolare sarebbe inviso agli evangelici che hanno sostenuto Bush. McCain è
un pro-life con qualche dubbio sull’aborto, ha divorziato, vorrebbe
concedere maggiori diritti agli immigrati. Ha definito il reverendo Jerry
Falwell “un agente dell’intolleranza” e Paul Weyrich – il fondatore della Moral Majority – “un pomposo figlio di puttana”. È un maverick, un battitore libero, disposto a calmierare la vendita delle
armi da fuoco e a tutelare i prigionieri di Guantanamo. Per questo piace ai
democratici che hanno appoggiato gran parte delle sue proposte di legge.
In
realtà la leggenda nera sulla inaffidabilità di McCain risale alle primarie del
partito repubblicano del 2000, quelle che incoronarono George W. Bush. Nel
South Carolina la macchina elettorale e propagandistica di Bush era guidata da
Warren Tompkins, discepolo di Lee Atwater, il grande stratega della pamphlettistica
conservatrice. Insieme a Karl Rove, Tompkins riuscì a montare una campagna per
screditare McCain. Il senatore fu definito un traditore, un Manchurian
Candidate, perché insieme al
democratico Kerry aveva assicurato che in Vietnam non c’erano più prigionieri
di guerra americani. “Lui è tornato e ci ha dimenticati” disse un reduce
parlando di McCain.
A
quel punto partì una violenta campagna underground fatta di telefonate, fax, e
mail, flyers che riguardava un’adozione fatta dal senatore e che lo colpiva
direttamente nella sua vita privata mettendo in discussione la sua figura di
padre. Dicono che a montare il caso sia stato il commentatore radiofonico Rush
Limbaugh che definì McCain un moderato amico dei liberal. Secondo Byron York,
un giornalista della National Review,
bisognerebbe andarci piano con le supposizioni. McCain ha dichiarato di non
aver mai scoperto la fonte di quegli attacchi tanto odiosi. Certo è che durante
le primarie del 2000 non lo aiutarono affermazioni suicide tipo questa: “la
bandiera confederata è un simbolo del razzismo e della schiavitù”. I
repubblicani del South Carolina non gradirono e scelsero Bush.
McCain
potrebbe incarnare l’essenza della rivoluzione reaganiana? Fino adesso ha
dimostrato di avere uno straordinario attaccamento ai principi della democrazia
americana. Reagan braccò i sovietici fino alla capitolazione, McCain ha
promesso che inseguirà Bin Laden “fino alle porte dell’inferno”. Per lui gli
Stati Uniti sono “l’ultima grande speranza del mondo” come sognava Lincoln.
“Preferirei perdere le elezioni piuttosto che la guerra in Iraq” va ripetendo
spesso in questi giorni davanti alle telecamere. Se lo può permettere
considerando che è stato lui, per primo, a denunciare il fallimento del blitz
iracheno ideato da Rumsfeld. Invadere l’Iraq e liberarlo senza impegnare un
numero adeguato di truppe si è rivelato un errore. McCain parlava di counter-insurgency
prima ancora che arrivasse
il generale Petraeus a mettere le cose a posto. Su questo argomento non ha mai
cambiato idea. Gli Stati Uniti resteranno in Iraq.
Per
tranquillizzare la base repubblicana si potrebbe fare l’esempio delle tasse. Reagan
era convinto che il governo non fosse la soluzione dei problemi, se mai era il problema. Con la sua visione di uno “stato leggero” che doveva
garantire maggiore libertà ai cittadini il presidente riuscì a conquistare l’elettorato
di diversi schieramenti (repubblicani, democratici, indipendenti) e a invertire
la politica interna degli Usa. Anche McCain vuole ‘affamare la bestia’. A modo
suo. Durante la presidenza Bush ha votato per due volte contro i tagli fiscali
e una volta a favore. Secondo lui la questione fiscale è legata alla riduzione
dei fondi pubblici e dei costi della politica. È stato un forte sostenitore
della legislazione che prevede tagli di spesa automatici in caso di deficit del
budget.
Alla
fine degli anni Ottanta finì implicato nello scandalo Keating Five e fu accusato di aver preso trecentomila dollari di fondi neri
insieme a un pacchetto di biglietti aerei gratis. Superò la tempesta e riuscì a
capovolgere le carte in tavola presentando al Congresso una proposta di legge
che metteva un freno al lobbying. Un obiettivo ambizioso destinato a scontrarsi
con i grandi interessi economico-politici di Washington che riuscirono a
boicottare la legge negli anni Novanta. Nel ‘94, simbolicamente, McCain aveva
presentato un emendamento contro i parcheggi gratuiti negli aeroporti destinati
ai membri del Congresso. Oggi considera i giudici della Corte Suprema “gli
interpreti della Costituzione”.
Insomma,
sembra una persona autentica che entrerebbe volentieri alla Casa Bianca per fare qualcosa
non per diventare
qualcuno. Durante le primarie nello Iowa ha avvertito i suoi elettori
di non farsi troppe illusioni. Con l’etanolo non si va lontano. L’ideologia
verde lascerà irrisolti i problemi energetici del futuro.
McCain
ha il carisma e l’esperienza necessaria per vincere la sfida con Obama o con Hillary
Clinton. È un guardiano della repubblica, un veterano figlio di veterani, uno
di quegli uomini destinati a conservare un posto nella memoria degli americani.
“In pace come in guerra,” dice lo scrittore John Karaagac, “i militari
diventano l’archetipo dei valori e delle istituzioni”. La foto del 1969 in cui
McCain stringe la mano a Nixon – in divisa, sulle stampelle, appena scampato all’inferno
di Hanoi – è passata alla storia. “Io sono leggenda” per dirla con Richard
Matheson.