La lezione di Amendola, inascoltata Cassandra del PCI

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La lezione di Amendola, inascoltata Cassandra del PCI

07 Marzo 2009

Il denso e documentato saggio storico di Ugo Finetti, Togliatti & Amendola. La lotta politica nel PCI. Dalla Resistenza al terrorismo (Edizioni Ares 2008), produce nel lettore la stessa sensazione che doveva ingenerare nell’animo di un francese del Secondo Impero il racconto del Comitato di Salute Pubblica, del Terrore, del bonapartismo, della Restaurazione, delle due rivoluzioni del 1830 e del 1848. Molti dei protagonisti delle vicende rievocate da Finetti non ci sono più—i nati negli anni in cui gli attori principali, Togliatti e Amendola, hanno lasciato questa valle di lacrime, 1964 e 1980, sono persone adulte e qualcuna  potrebbe essere già nonna—mentre molti altri sono talmente cambiati nel frattempo da far pensare quasi a delle omonimie. Tanto per fare un solo esempio, l’Achille Occhetto della FGCI, fiero oppositore di Amendola, è lo stesso che, divenuto segretario del PCI, prima cambiò nome al partito e, in seguito, dopo averlo abbandonato, si ritrovò, con Leoluca Orlando, nel movimento populistico di Antonio Di Pietro? Si ha un bel polemizzare contro l’<histoire événementielle>, in nome della ‘lunga durata’, ma ci sono fatti, come Waterloo o Sedan, che fanno precipitare i tempi anche quando le primavere passate non sono poi così tante. Il crollo del muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica, il recupero della sovranità nazionale da parte dei paesi satelliti rappresentano lacerazioni del continuum storico che non hanno nulla da invidiare alle ‘rivoluzioni’ propriamente dette, ove si eccettui l’ erogazione di violenza ridotta al minimo nel ‘secondo ‘89’.

Specialmente per le giovani generazioni, parlare di Togliatti, di Longo, di Pajetta è come parlare di Crispi o di Depretis o del Generale La Marmora, con la differenza non sottovalutabile che i primi, a differenza dei secondi, non sono associati a ‘mitologie ufficiali’, non avendo costruito la patria ma, nel migliore dei casi, contribuito a non farla precipitare nell’inevitabile anarchia seguita alla fine ingloriosa del fascismo. La caduta di un regime politico, diceva Carlo Cattaneo, significa il macero per intere raccolte di leggi e di sentenze. Il tramonto di una grande potenza, come la Russia sovietica, fa apparire del tutto irreali le lotte interne al PCUS e ai ‘partiti fratelli’, le congiure di palazzo del Cremlino o, più modestamente delle Botteghe Oscure, le montagne di carta delle mozioni congressuali in cui le correnti e i loro leader dimostravano la loro ortodossia a suon di citazioni di Marx o di Lenin e si bollavano a vicenda come eretici.

Con queste premesse, non si vuole affatto minimizzare il non facile lavoro di ricerca archivistica e documentaria svolto da un pubblicista di valore come Ugo Finetti. Vicina o lontana nel tempo, la storia dello scomparso PCI è, come dicono gli anglosassoni, non poco intriguing e per diversi ordini di ragioni. La prima sta in un certo fascino, sia pur negativo, che emana da una formazione politica <diversa> dalle altre, una sorta di ‘chiesa’ secolarizzata ma pur sempre contraddistinta da gerarchie cardinalizie ed episcopali, da un pontefice (il segretario del partito), da sacre scritture, e da sinodi (convegni e conferenze nazionali) obbedienti a rituali inaccessibili allo spirito critico. Seguire il vario atteggiarsi di uomini e di gruppi dinanzi alle sfide interne e internazionali della storia, assistere all’abilità con la quale il Migliore riuscì, per vent’anni, a riportare la palla al centro—alla ‘linea’—mettendo la sordina alle dissonanze di destra e di sinistra (es. Pietro Secchia), riascoltare idealmente le masse operaie e contadine eccitate e generose di applausi ai discorsi di mobilitazione, può essere non meno istruttivo della lettura dei contrasti tra Robespierre e Danton—scontato, ovviamente, il diverso rilievo dei due ‘professionisti della rivoluzione’ e la imparagonabile incidenza delle loro gesta sui destini del mondo.

C’è, però, una ragione ben più seria che consiglia vivamente il testo di Finetti e qui, forse, una lancia a favore della <longue durée> potrebbe venir spezzata. Gli uomini, lo si è detto, non ci sono più o se ci sono ancora sono talmente <mutati ab illis> da essere diventati irriconoscibili. Eppure i copioni, ai quali si attenevano, a ben vedere, non sono cambiati molto, anche se i ruoli sono stati ridistribuiti con altri criteri e le maschere hanno spesso cambiato nome. Arrivati all’ultima pagina di <Togliatti & Amendola> si scopre che la ‘passeggiata storica’ non è stata né inutile né rasserenante, giacché, indipendentemente dai bizantinismi che scandivano regolarmente la lotta per il potere specie dopo la morte di Togliatti, il PCI, anche nei suoi esponenti di alto profilo morale e intellettuale portava allo scoperto, come pochi altri partiti, antichi nodi irrisolti della ‘political culture’ italiana. Finetti non sorvola affatto sulle molte ombre che accompagnavano la prassi politica e le elaborazioni teoriche di Giorgio Amendola: la costante, immutata, fedeltà all’Unione Sovietica, l’accettazione indiscussa della leadership di Togliatti, pur nel dissenso talora grave (come la diversa valutazione di Kruscev e del processo di ‘destalinizzazione’) il plauso alla repressione della rivolta ungherese del 1956 e all’invasione dell’Afganistan, per non parlare, nel periodo in cui , capo partigiano, non indietreggiò dinanzi a discutibili atti di sabotaggio come l’attentato di Via Rasella. A ciò si aggiunga <una lettura dell’economia italiana>  rimasta <vincolata a uno schematismo classista>. Amendola, scrive Finetti, <non crederà mai a un ‘grande capitalismo italiano che sarebbe democratico e progressivo’; è in lui radicata la convinzione della ‘natura reazionaria del capitalismo italiano codino e ignorante’. In generale, nella sua impostazione di analisi economica è sempre presente, come lascito della tradizionale lettura catastrofista del capitalismo, la costante polemica sull’arretratezza del sistema economico italiano> identificato <con la grande impresa monopolistica gestita in modo ‘borbonico’ e incapace di innovazione e sviluppo: sempre un ‘capitalismo straccione’, che aggrava e moltiplica contraddizioni e arretratezze>.

Sennonché, a parte questi e altri pesanti limiti della sua formazione ideologica, nel robusto realismo di Amendola, che non lo renderà affatto cieco dinanzi al fallimento oggettivo del ‘socialismo reale’,c’è un tratto che ne rende il ritratto umano e politico meritevole di collocazione nella galleria dei ‘grandi italiani’. Mi riferisco a quella etica della responsabilità che in lui si traduceva naturaliter in un forte e sicuro ‘senso delle istituzioni’ o, per dirla con i nostri padri ottocenteschi, in un profondo ‘sentimento dello Stato’. In un periodo come l’attuale in cui, nel momento del suo apparente trionfo, il liberalismo—o meglio quanti ad esso si richiamano—rischia di smarrire l’importanza cruciale delle cornici di potere e di autorità che nel mercato sociale, inteso in senso lato, mantengono l’ordine e garantiscono il rispetto dei patti, l’insegnamento di Amendola è forse l’unico lascito prezioso del PCI alla Repubblica italiana. Non penso certo al  pur qualificante impegno profuso dal leader napoletano per  cancellare definitivamente, nella prassi e nella dottrina del movimento operaio, non solo ogni tentazione di ritorno alla teoria del ‘socialfascismo’, d’infausta memoria staliniana, ma altresì ogni demonizzazione della stessa socialdemocrazia, superficialmente riguardata dai ‘sinistri’ come  strumento dell’integrazione neocapitalistica.

L’importanza di Amendola va ben oltre la ricorrente proposta di collaborazione tra il PCI e i partiti laici—PSI, PRI, PSDI—al fine di spezzare il monopolio democristiano e i suoi tentacoli nella società civile–una proposta alternativa al disegno di Pietro Ingrao che <guardava alle ‘schegge’ rappresentate dalle minoranze e dissidenze cattoliche e socialiste per costruire uno schieramento di ‘alternativa globale’ su un programma di radicale anticapitalismo a guida comunista>. Ciò che rende Giorgio degno figlio di Giovanni Amendola, è il suo oggettivo ‘liberalismo istituzionale’ che si manifesta soprattutto in quella lucida percezione dei guasti del giacobinismo di Ingrao e del dirigismo di Lombardi che in lui maturò pienamente all’epoca del X Congresso. <Il progressivo allargamento dell’area pubblica in campo economico> gli fece intravedere l’intorbidamento dei <rapporti tra partiti, potere economico e istituzioni>, il rischio di uno <Stato centralizzato e accentratore> suscettibile di esautorare il Parlamento, un processo decisionale al buio e incontrollabile. Diffidava della formula nenniana della ‘stanza dei bottoni’ che, ancora negli anni sessanta, univa gli autonomisti del PSI e la sinistra ingraiana e vedeva chiaramente i pericoli dello statalismo e la sua inadeguatezza a fronteggiare la crisi. A differenza di altri leader della sinistra democratica, che avrebbero dato in seguito un buon contributo, al buco nero delle finanze statali, Amendola, negli anni settanta aveva l’incubo del deficit pubblico e dell’inflazione. Come puntualizza Finetti, per lui <le ricette e le vie d’uscita non sono quelle indicate dalle idee prevalenti a sinistra, a cominciare dagli Enti locali e dai sindacati |…| corresponsabili degli errori del passato e dei rinvii del presente. ‘A parole, scrive nel saggio ‘Coerenza e severità’ (‘Politica ed economia’ luglio-agosto 1976), tutti sono d’accordo nel richiedere un contenimento dei consumi pubblici e della spesa pubblica per trasferimenti. Ma in concreto, quando si parla di ridurre certe spese pubbliche, le categoria interessate avanzano il loro no>. E in modo ancora più esplicito e tagliente: <Ogni volta che si annuncia la chiusura di una fabbrica, i lavoratori cominciano ad occuparla per richiedere l’intervento dello Stato, cioè per accrescere la zona economica assistita dallo Stato, senza che si realizzi alcun sostanziale progresso della produttività, bruciando cioè nel mantenimento di situazioni economicamente arretrate capitali pubblici che dovrebbero essere investiti in operazioni di riconversione>.

Allergico a ogni demagogia, Amendola, critico ante litteram del welfarismo irresponsabile,  non riteneva che lo Stato potesse aiutare ogni cittadino dalla culla alla tomba, con l’aumento della pressione fiscale a base di slogan <colpire i grandi evasori>: certamente questi ultimi andavano snidati e incarcerati ma non era questa la soluzione. <Paghino i ricchi><E dove cominciano i ricchi?> e <dove cominciano i ceti medi?>. Non meraviglia che considerasse  errori  fatali <la difesa a oltranza della scala mobile> (la cui abolizione sarebbe stata uno dei fiori all’occhiello del governo Craxi) e la stessa proposta della riduzione dell’orario di lavoro. Era la rottura non solo  con la sinistra del suo tempo ma altresì con quella degli anni avvenire che sul recupero dell’evasione fiscale avrebbe appoggiato la richiesta un assegno mensile a tutti i disoccupati (è il tema di questi giorni). Una rottura destinata persino ad approfondirsi con l’impavida denuncia delle radici ribellistiche e autoctone della contestazione e del terrorismo—l’<album di famiglia> di cui parlava la radical chic Rossana Rossanda. <Per Amendola, osserva Finetti, è innegabile che vi sia ‘un rapporto diretto tra violenza in fabbrica e il terrore’ ma ‘si è giunti, anche da parte di dirigenti sindacali, alla giustificazione della violenza, di ogni forma di violenza, in fabbrica come espressione della rabbia provocata da un ‘lavoro idiota’>.

Un vecchio marxista che stigmatizzava le viltà di intellettuali borghesi di provenienza azionista come Norberto Bobbio o Guido Quazza che, <neutrali tra BR e Stato>, solidarizzavano nel 1977 con i giudici popolari torinesi disertori al processo contro i gruppi eversivi armati, è un’immagine emblematica su cui la storiografia e la cultura politica italiana non hanno ancora riflettuto abbastanza. Non meraviglia pertanto che il  commento a Bobbio–<il coraggio civico non è mai stato una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana>– sia stato rimosso dalla cultura di sinistra, che ricongiunge buonisticamente i duellanti di ieri nel registro retorico dei <maestri e compagni>, alla stregua di quei moti di stizza su cui stendere il velo pietoso dell’oblio.

Finetti ci ha fatto riscoprire un vero ‘inattuale’ in un paese che, portato, anche nei suoi ambienti  conservatori, a simpatizzare più con i ‘movimenti’ che con le ‘istituzioni’, rimane ogni volta dolorosamente colpito dall’incapacità dei primi di ‘sedimentare’, fecondando il terreno della società civile (v. i lamenti sul ‘Risorgimento incompiuto’, sulla ‘Resistenza tradita’ etc.). La ‘lectio magistralis’ di Amendola è nel richiamo implicito alla <dottrina dello Stato> che ha aperto e segna indelebilmente l’età moderna, alla consapevolezza che senza gli argini istituzionali—di cui tutti i partiti dovrebbero curare la manutenzione –il torrente impetuoso della vita e dell’innovazione si riversa sulle campagne trasformandole in acquitrini.