La liberazione di Aung San Suu Kyi è un segno di forza del regime birmano
13 Novembre 2010
La liberazione di Aung San Suu Kyi è certamente una buona notizia, per lei che ha passato agli arresti domiciliari 15 degli ultimi 20 anni, e per chiunque abbia a cuore l’affermarsi dei diritti umani nel mondo. Che questa decisione possa costituire un segnale di cambiamento del regime di Myanmar in senso democratico è questione molto più dubbia.
La leader dell’opposizione burmese era stata messa agli arresti nel 1990 quando il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, aveva vinto le elezioni con il 58 per cento dei voti. La giunta militare cancellò d’imperio il risultato elettorale e da allora in Myanmar non si è mai più votato fino allo scorso 7 novembre. Con un risultato che la comunità internazionale ha definito unanimemente “una farsa”.
Aung San Suu Kyi è stata negli anni successivi il simbolo indiscusso dell’opposizione democratica burmese e grazie all’assegnazione del premio Nobel per la Pace nel 1991, ha mantenuto acceso un faro su uno dei regimi più chiusi e autoritari del mondo. Per questo la giunta ha quasi sempre esteso i termini della sua carcerazione, rilasciandola solo per brevi periodi di libertà subito revocati.
Questa volta invece il termine del rilascio fissato lo scorso agosto dal leader della giunta militare, il generale Than Shwe è stato rispettato. Ieri, senza alcun preavviso un ufficiale della giunta le ha notificato il decreto di scarcerazione, i posti di blocco attorno alla sua casa sono stati rimossi e lei è potuta uscire ad incontrare la folla dei suoi sostenitori che ancora increduli l’hanno a lungo acclamata.
Diversi fattori devono aver giocato in questa decisione da parte della giunta militare. Ma tutti riconducibili alla percezione maturata dai vertici che il prezzo pagato con la liberazione del premio Nobel era oramai divenuto molto più basso del guadagno in termini di immagine che se ne sarebbe ricavato.
Aung San Suu Ky è stata politicamente indebolita dalla scelta di boicottare le elezioni dello scorso 7 novembre. La sua decisione ha offerto alla Giunta un appiglio per sciogliere il suo partito e privarla così dello standing pubblico che le derivava da una posizione istituzionale. Per di più la sua decisione intransigente non è stata condivisa da tutto il fronte di opposizione democratica e dalla Lega Nazionale, ormai fuori legge, sono sorti altri movimenti che hanno accettato di partecipare alle elezioni e hanno vinto un certo numero di seggi.
In questo modo il regime è stato in grado di dividere l’opposizione e di indebolire il carisma della sua leader. Oggi molti suoi ex compagni di lotta temono che un suo ripetuto appello al boicottaggio del “processo democratico” possa mettere in pericolo quelli che considerano dei passi avanti del regime.
Inoltre la pressione internazionale per la liberazione di Aung San Suu Kyi era, negli ultimi mesi, aumentata in modo preoccupante dal punto di vista di Naypyidaw. Barack Obama, durante il suo viaggio in Asia, si era ripetutamente rivolto alla giunta chiedendo in modo pressante la liberazione del premio Nobel e lo stesso hanno fatto le cancellerie di tutti i paesi occidentali.
Alla fine al regime è convenuto cedere avendo considerato che l’effetto simbolico della liberazione (ci sono altri 2100 detenuti politici nelle carceri del regime) avrebbe di gran lunga sorpassato le conseguenze politiche della liberazione. Le elezioni farsa a cui però una parte dell’opposizione ha accettato di partecipare, hanno fornito nuova legittimazione alla giunta militare, mentre i rapporti sempre più stretti e amichevoli con la confinante Cina assorbono molto bene sanzioni e pressioni da occidente. La liberazione di Aung San Suu Kyi, alla fine, è più il segno della forza del regime di Burma che non della sua debolezza o della sua resa democratica.