La libertà di culto è un diritto di tutti?

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La libertà di culto è un diritto di tutti?

La libertà di culto è un diritto di tutti?

16 Agosto 2007

In questa occasione vorrei parlarvi brevemente di tre diversi modi di intendere la libertà religiosa: uno nei paesi atei, come la Francia, e due diversi modi di intenderla negli Stati Uniti. Quindi concluderò con poche parole in merito all’Islam – un capitolo di storia non ancora pienamente sviluppato ma di grande importanza per il resto di questo secolo.

Gli atei in Europa hanno il proprio approccio alla libertà di culto. Nella vita personale, prendono la religione molto sul serio, come se si trattasse di una pericolosa realtà sociale da reprimere. Politicamente, a partire dalla Rivoluzione Francese del 1789, l’obiettivo dell’ateo è stato quello di escludere la religione dalla vita pubblica, e confinarla alla sfera privata. Hanno cercato di far sì che lo stato predominasse sulla chiesa, sulle sinagoghe, sulle moschee, così che lo stato controlli tutte le sfere della vita pubblica. Cercano di relegare ai margini i movimenti religiosi. Questo processo in Europa prende il nome di ‘laicizzazione’, mentre in America è conosciuto col termine ‘secolarizzazione’. La segreta speranza dei secolarismi è che la religione si affievolisca col passare del tempo, così come accade per tutte le cose ‘fuori moda’, che vengono inesorabilmente abbandonate. Essi pensano che il futuro sarà meno religioso e più secolare di quanto non lo sia oggi, e che questa sarà una cosa molto positiva.

In America questo fenomeno ha assunto forme diverse. Alcuni atei anglo-americani condividono le convinzioni degli atei francesi, ma la maggior parte ha dovuto riconoscere che la religione ha un ruolo importante sia nella vita privata che in quella pubblica delle nazioni. Gli anglo-americani hanno sviluppato due diverse difese della libertà di coscienza, di cui una si basa su premesse non religiose, aperta anche agli atei – o per lo meno agli atei che discutono di queste questioni per il puro valore filosofico che queste incarnano. L’altra si basa invece su concezioni religiose, e più esplicitamente sulla visione ebrea e cristiana del Creatore e Signore di tutte le cose.

Il punto di vista non religioso si basa su due ragioni: la prima è che allo stato di natura gli esseri viventi rappresentano un pericolo gli uni per gli altri. Quindi, per la loro individuale sicurezza, stipulano un contratto sociale grazie al quale bandiscono la violenza personale e privata in cambio di un “contratto sociale” con cui lo stato garantisca il rispetto dei loro diritti. Questo punto di vista affonda le radici dei diritti nella paura e trova un fondamento nel pragmatismo. Gli esseri umani sono un pericolo gli uni per gli altri, noi dobbiamo aver paura gli uni degli altri, quindi è necessario trovare una soluzione pratica per la nostra sicurezza. Questo è il ragionamento alla base del “contratto sociale”.

La seconda ragione è che, per natura, ciascun essere umano è responsabile dell’accettazione o del rifiuto di ciò che viene presentato alla propria coscienza, e ciascuno è responsabile delle scelte che fa in base al proprio stile di vita. Questa responsabilità dà origine a un diritto umano – dove esiste una responsabilità si configura sempre un diritto – ovvero quello di prendere decisioni e fare delle scelte. E questo diritto è inalienabile. Nessuna persona può esercitare questo diritto per qualcun altro. In questo senso, la coscienza di ciascuno deve essere rispettata quale inviolabile.

Sebbene queste due difese non religiose – una in termini di natura e diritti e una in termini di paura dell’altro nel contratto sociale e di nascita dei diritti dalla società civile – non menzionino specificatamente la libertà di culto, entrambe difendono la libertà di coscienza, e in questo senso rispettano la libertà religiosa quale importante scelta di coscienza. Anche se gli atei rifiutano la scelta religiosa per loro stessi, essi riconoscono il merito sociale e la coerenza intellettuale del rispettare questa scelta negli altri. Essi possono non approvare la scelte delle persone religiose, ma rispettano la libertà di ciascuno di fare tali scelte.

La difesa religiosa della libertà di culto, o, più in generale, della libertà di coscienza, è qualcosa di diverso. Proviamo a seguire il ragionamento di Thomas Jefferson, George Mason, James Madison, e altri illustri esponenti del buon popolo della Virginia, per mano dei quali la Dichiarazione dei Diritti del 1776 fu concepita, redatta e tramandata. Ho descritto questa logica in dettaglio nell’epilogo del mio libro, “On Two Wings”. L’epilogo si intitola “Quali origini hanno avuto i diritti umani in Virginia?”. Permettetemi di spiegare brevemente la questione.

Questi esponenti hanno dato voce alla credenza piuttosto diffusa all’epoca in America  – ma anche oggi – secondo la quale il mondo sarebbe stato generato da un Creatore e Signore di tutte le cose, che vuole estendere la sua amicizia a tutti gli uomini, che non sono schiavi ma uomini liberi, e che vuole essere ringraziato e adorato in purezza di coscienza, in fede e verità. E’ evidente, scrive Thomas Jefferson, che qualsiasi creatura che riconosce un Creatore sente di avere un grande debito di riconoscimento e gratitudine, e anche di servizio nei confronti di un potere che va così al di là del proprio.

Questo Dio non si lascia ingannare da gesti o rituali, ma vede direttamente nell’animo umano. Ecco come viene spiegato il fulcro della questione, spiegando i principi alla base della Dichiarazione della Virginia: “La religione, o il dovere di cui siamo debitori al nostro Creatore e i modi in cui lo assolviamo, possono essere diretti solo dalla ragione e dalla convinzione, non dalla forza né dalla violenza; tutti gli uomini hanno quindi ugualmente diritto al libero esercizio della religione secondo coscienza, ed è dovere reciproco di tutti praticare le virtù cristiane di pazienza, amore, carità, gli uni nei confronti degli altri”.

Ora, per quanto ci provi, non vedo questa affermazione come una dichiarazione deista – è dovere reciproco di tutti praticare le virtù cristiane di pazienza, amore, carità gli uni nei confronti degli altri. È difficile leggere questi documenti e non riconoscere che non si parla certo del dio degli islamici, né del dio dei buddisti, né degli dei hindu. L’unico dio che si riconosce in questa descrizione è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù. E questo è essenziale per avvalorare il principio della libertà di culto nei loro confronti, poiché Dio offre amicizia e vuole che gli uomini siano liberi. E che lo accettino liberamente o no, Egli lascia a loro la decisione da prendere in merito a questo. Non serve fingere. Non si tratta si compiere semplici gesti o partecipare ai rituali, poiché Egli legge nel cuore e vuole essere seguito con spirito e verità. Questa, nella storia,  è una concezione piuttosto originale e unica di Dio, e non è universale. I suoi effetti sono universali, ma il suo riconoscimento non lo è.

In breve, l’atteggiamento che sta alla base di questa discussione include quattro punti chiave: la benevolenza di colui che dà vita e libertà (Egli offre la Sua amicizia); il dovere delle creature di riconoscere questa benevolenza ed esserne grati; terzo, la libertà d’animo di cui il Creatore ha deliberatamente fornito gli uomini, affinché potessero esercitare questo dovere; e quarto, l’amicizia che Dio desidera con gli uomini, e che invita gli uomini a condividere, e spiega il dono divino di libertà per ogni uomo e ogni donna.

Tenendo a mente questi quattro punti chiave, la dichiarazione della Virginia, e anche la famosa petizione per la contestazione contro il governatore della Virginia che James Madison fece circolare alcuni anni più tardi – una contestazione, che, tra l’altro, George Washington si rifiutò di firmare – portò alla seguente discussione. Qualsiasi creatura razionale, contemplando i grandi doni ricevuti dal Creatore, è conscio di dovere legittima gratitudine a quel Creatore, in spirito e verità, alla luce pura della coscienza, senza essere vittima di nessun tipo di coercizione. Il Dio onnipotente, che avrebbe potuto piegare la mente umana, disse Jefferson, scelse liberamente di non farlo, ma permise alla mente umana di procedere alla luce della verità che ha a disposizione. Poiché questo dovere è sacro, e più importante di tutti gli altri doveri, più importante di quelli nei confronti della società civile (persino quelli verso genitori e amici) o dello Stato, poiché è un dovere che ciascuna creatura ha direttamente verso il Creatore, senza alcun intermediario, questo dovere implica anche un diritto.

In altre parole, contrariamente a quanto affermava Locke, questo diritto non deriva dalla nascita della società civile, e contrariamente a quanto credono molti moderni, non scaturisce dallo Stato. Questo scaturisce dal legame diretto tra la libera coscienza umana e il Creatore. E la creatura, l’essere umano, ha piena libertà di farne ciò che vuole, ma se ha il dovere di riconoscere la grandezza del Creatore, allora deve anche avere il diritto di scegliere se farlo oppure no. Ma quel diritto affonda le radici in una particolare concezione di Dio e della coscienza, e della loro relazione. Ora, questo deve implicare il diritto di esercitare tale dovere, che non può essere alienato da nessun potere terreno, di nessuna natura. È un diritto inalienabile e inviolabile. È un legame diretto tra l’animo umano e il suo Creatore. Tuo padre e tua madre non possono dire “Sì” al Creatore al posto tuo. Né lo possono fare i tuoi fratelli o le tue sorelle, o tuo zio o tua zia – nessuno, solo tu. È inalienabile. Non puoi passarlo a qualcun altro. Ed è inviolabile. Nessuno si può mettere in mezzo tra la creatura e il suo Creatore. Questo diritto è superiore a tutti gli altri. Dev’essere esercitato in coscienza e senza coercizione, sotto lo sguardo diretto del Creatore.

I fondamenti religiosi della libertà di culto, quindi, iniziano con (1) la natura di Dio (il sovrano Creatore, che desidera essere amato in spirito e verità, senza coercizioni, e che offre all’uomo la Sua amicizia, da accettare o rifiutare in piena libertà, ma con piena responsabilità delle eterne conseguenze della sua scelta), e (2) la natura degli esseri umani: l’uomo è nato libero, e uguale a tutti gli altri uomini nella sua libertà davanti a Dio. Non siamo uguali in nient’altro – ad esempio, mi piacerebbe molto avere una bella voce da cantante, ma sono proprio stonato! Non siamo uguali per natura, infatti siamo unici, irripetibili, con diversi punti di forza e di debolezza. Ma l’unico luogo in cui siamo tutti uguali è agli occhi di Dio. Non importa quanto un uomo sia grande, potente, ricco o famoso; agli occhi di Dio questo non ha nessun valore, non conta niente. Lui guarda dritto nel cuore, alla ricerca di qualcos’altro. Questo è il modo in cui siamo tutti uguali.

Questo, a parer mio, è un punto davvero molto importante. L’Illuminismo considera libertà, fraternità e uguaglianza come evidenti, scontate, ma non lo sono. Esse sono il risultato di un insieme di presupposti relativi alla maniera di intendere Dio e gli esseri umani, che l’Illuminismo mutua dalla Cristianità, e la Cristianità a sua volta mutua dall’Ebraismo. Uno degli effetti politici del Cristianesimo è di diffondere la conoscenza del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe in tutto il mondo. Quindi l’uomo è nato libero, uguale a tutti gli altri uomini nella sua libertà davanti a Dio, e indipendentemente dallo stato e dalla società civile, ciascun uomo è in debito con il suo Creatore.

Basandosi su queste due assunti – riguardo a Dio e riguardo l’uomo – la giustificazione religiosa della libertà di culto, così come espressa dal popolo della Virginia, è fondata sui diritti naturali degli esseri umani, che sono stati loro attribuiti dal Creatore.

Voglio sottolineare che questa è una questione filosofica, ma quello che attinge dall’Ebraismo e dal Cristianesimo è la concezione di Dio e come Egli concepisce gli esseri umani. Quindi non si tratta di una questione puramente filosofica, ma in un certo senso lo è. Non è necessario essere ebrei o cristiani per riconoscervi un merito, o capirne gli effetti pratici. Ma è importante riconoscere, secondo me, che questa concezione è stata raggiunta da ebrei e da cristiani. Solo loro sono giunti a questa concezione, ma tutti possono far proprio questo concetto, non è necessario essere ebrei o cristiani per condividere tutto questo. Ma è significativo capirne la genesi storica, altrimenti vengono meno le fondamenta di questa discussione.

Questa motivazione è particolarmente bella perchè coloro che per la prima volta ne proposero la ratificazione formale la resero alla portata di tutti gli esseri umani, non solo per coloro che appartenevano alla loro cerchia ristretta. Una delle clausole della Dichiarazione parla del divino autore della nostra religione, e nella legislatura della Virginia fu avanzata una richiesta per indicare  in Gesù Cristo questo creatore. Perché girarci tanto intorno? E’ sufficiente dire che il divino autore della nostra religione ci mostra la genesi di tutto questo. È una visione aperta ai musulmani, si dice espressamente, ai buddisti, agli atei, agli altri. Quindi i diritti di cui si parla non appartengono solo agli inglesi, agli americani, ai cristiani e agli ebrei. Appartengono a tutti. Secondo me si tratta di una concezione molto bella, molto generosa.

Non reclamano niente per loro stessi, riconoscono che quello che hanno appartiene anche a tutti gli altri esseri umani. Ecco perché l’hanno definito diritto “naturale”. Tali diritti sono fondati non nella cultura, non nell’etnia, non nelle tribù né nelle definizioni religiose, ma in tutti gli esseri umani allo stesso modo. Le loro radici storiche possono essere state individuate da un particolare gruppo religioso nel corso della storia dell’uomo, ma la loro applicazione pratica e filosofica (se esse sono vere) è universale.

Nell’immediato secondo dopoguerra, Friederich Hayek dal monte Pelerin in Svizzera affermò che se la libertà doveva prosperare nella nuova era%2C allora tutti coloro che credevano nella libertà, sia credenti che non credenti, avrebbero dovuto metter fine agli scontri fratricidi che andavano avanti dalla Rivoluzione Francese. Coloro che vogliono la libertà non sono troppi, ma troppo pochi, disse. E questi pochi devono imparare a cooperare in nome di questa libertà fragile, sempre a rischio ma ardita, coraggiosa. In altre parole gli atei, i credenti e i non credenti, i cristiani e gli ebrei devono cooperare per difendere la libertà, che ha un gran numero di nemici. È una conquista sempre difficile, e può essere spazzata via da una singola generazione; una singola generazione può pensare che sia una cosa troppo onerosa, troppo difficile da gestire, e lasciarla perdere. Ecco perché la libertà è la condizione più fragile, più precaria. È necessario che la libertà sia liberamente compresa e accettata da tutti, generazione dopo generazione. La catena può spezzarsi in qualsiasi punto, in qualsiasi momento.

Nella maggior parte del mondo, fortunatamente, l’amore per la libertà deriva principalmente da due cose: l’esperienza umana, il senso comune, la ragione umana, ma anche dalle religioni che fanno appello all’intrinseca libertà dell’animo umano. Ma anche ai giorni nostri la libertà non è intesa ovunque allo stesso modo. Subito dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989, a suggellare il ritorno della libertà nella Repubblica Ceca, il primo nuovo locale ad aprire i battenti fu un locale pornografico in Piazza Wenceslaus, a Praga. Roba da spezzare il cuore. Il punto è che la libertà non significa la stessa cosa per tutti, anche nella nostra società libera, così come noi la immaginiamo. D’altra parte, avendone avuta esperienza diretta, le guerre, le oppressioni, gli olocausti e altre crudeltà del ventesimo secolo hanno suscitato in tutto il mondo una sorta di repulsione contro certi “crimini contro l’umanità”. Molti hanno preso coscienza di tutto questo in maniera che non potevano prevedere, e hanno sviluppato una forte opposizione nei confronti di palesi violazioni dei diritti umani. Oltre a questo, le sofferenze inflitte a centinaia di migliaia di esseri umani nel corso dei regimi tirannici degli ultimi tempi in tutto il mondo hanno fatto acquisire a molti popoli una nuova consapevolezza della democrazia, che non avrebbero mai potuto acquisire semplicemente in modo positivo. In altre parole, sono stati educati alla democrazia proprio dagli effetti della sua assenza.

Questa repulsione nei confronti di veri e propri abusi ha alimentato il ragionamento morale e religioso sulla profonda natura degli esseri umani. Cosa c’è, dentro di noi, che ci fa gridare “Questo non è giusto! Questo è insopportabile!”? Questa presa di posizione ha fatto nascere domande sulle basi dei diritti umani, e la profonda origine della coscienza umana. Allo stesso modo Natan Sharansky (tra i principali dissidenti dell’Unione Sovietica ndt) – al quale sono onorato di far seguito con la mia esposizione in questa occasione – tornò ad aver fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Quando era in prigione, qualcuno gli fece avere il libro dei Salmi. (Era in ebraico e a quanto pare i suoi carcerieri non erano in grado di leggerlo, così lo passarono agli altri). La sorpresa fu grande nel leggere di sentimenti e idee di secoli prima che sembravano parlare della sua condizione attuale, e si rese improvvisamente conto che c’è una coscienza comunitaria che noi tutti condividiamo, non solo attraverso le generazioni, ma attraverso i millenni, e le sue radici sono misteriose e profonde. Questa riscoperta della coscienza non fu piacevole; vi era stato guidato dalla detenzione, dalla prigionia.

Più avanti, divenne chiaro che per conquistare più popoli e culture possibili, un semplice sviluppo secolare di queste domande sarebbe stato insufficiente, parziale e generalmente insoddisfacente. Avrebbe lasciato insoddisfatta la religiosità della grande maggioranza dei popoli del pianeta. Jürgen Habermas, il filosofo tedesco che si definiva un ateo, fu scioccato nel constatare che, dopo l’11 settembre, gli atei rappresentano solo una piccola isola in un grande mare di religiosità presente su tutto il pianeta. Non vi aveva mai pensato in questi termini. Quindi, un punto di vista adatto alla sola visione atea non era adeguato a difendere la libertà. Allo stesso modo, le tradizioni intellettuali e linguistiche di nessuna delle religioni maggiormente diffuse al mondo (ebraismo, cristianesimo e islamismo sono le principali religioni che si intendono universali) sarebbero sufficienti da sole. Ciononostante, tutte le nazioni del pianeta avvertono la necessità di pensare e parlare della questione morale e religiosa in un modo che sia aperto e adeguato sia ai credenti che ai non credenti. Adesso è necessario pensare alla religione in modo nuovo e moderno, è necessario per poter costruire società libere aperte a tutti, dove credenti e non credenti possano vivere in reciproco rispetto e ragionevoli buoni rapporti.

Ora vorrei ritornare un attimo ad una cosa a cui ho semplicemente accennato prima, in merito alla letteratura di prigionia del ventesimo secolo. Uno degli aspetti unici del ventesimo secolo è la presenza di giornali, diari, lettere e riflessioni sull’esperienza della prigionia. Durante la Seconda Guerra Mondiale molti dei leader cristiano-democratici hanno vissuto periodi di prigionia in campi nazisti, e centinaia di altri pensatori e scrittori dovettero scontare periodi di detenzione in prigioni comuniste. Detto questo, è evidente che queste esperienze ebbero un risvolto formativo. C’era qualcosa in loro che gli impediva di mentire, di essere complici in quello che succedeva. Tutti i carcerieri volevano che firmassero una dichiarazione “Falsa, ma dovete firmare. Tanto, chi lo saprà? Finirà in mezzo a molte altre, nessuno la leggerà mai”. E’ in questa occasione che Natan Sharansky avvertì fortemente tale coscienza comunitaria. Il suo carceriere (o più precisamente il suo compagno di cella, istigato dal carceriere) gli ricordò che persino Galileo, il suo eroe, mentì per evitare ulteriori indagini sulle sue ricerche e i suoi studi. Lui sapeva quale era la posta in palio, mentì e non accadde niente. Quel ragazzo continuava a dire “Galileo è il tuo eroe, fai come lui, menti”. Sharansky pensò alla comunità di anime: “Galileo è morto quasi cinquecento anni fa, e ancora usano la sua storia per cercare di corrompermi”. Gli effetti della vita e delle scelte di Galileo ricaddero per secoli su chi venne dopo di lui, e tutti quelli che erano stati corrotti in carcere cercavano a loro volta di corrompere gli altri. In quella circostanza, quindi, la tua resa non è per te, ma per gli altri. Ecco come Sharansky arrivò alla convinzione che l’espressione “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” è il più grande ostacolo al totalitarismo. Questa affermazione implica che Cesare non è responsabile per tutto, e non ha potere su tutto. Il potere di governo è limitato.

Ora vorrei fare il più rapidamente possibile alcune riflessioni sull’Islam. Abbiamo sentito che secondo l’argomentazione di Sharansky nella lotta tra dittatura e democrazia la libertà di tutti è a rischio fintanto che la dittatura abusa dei diritti del proprio popolo per cercare di diffondere la violenza in altri luoghi, come fanno i paesi in Medio Oriente, mascherando le proprie tirannie istigando l’odio nei confronti di Israele, e alimentando l’insoddisfazione e il senso di ribellione contro Israele per distogliere l’attenzione dai loro stessi paesi. Questa, secondo Sharansky, è la fatale prerogativa della dittatura. Si creano nemici e si indirizza la colpa su di loro, per timore di perdere il loro potere. Questo è il motivo per cui il Presidente Bush, la Heritage Foundation e altri sostenitori della libertà si sono impegnati a diffondere i principi democratici in tutte le culture del mondo. Vogliono offrire la loro assistenza alle associazioni democratiche e agli individui di tutte le culture del mondo. È la convinzione degli americani, duramente sostenuta sia per ragioni di filosofia che per ragioni di fede, che gli stessi diritti naturali che noi reclamiamo per noi stessi appartengano a tutti gli esseri umani allo stesso modo. Dopo tutto, queste origini sono nate dal Creatore, e questi diritti appartengono a tutti coloro che condividono la stessa natura umana. Inoltre, quando questi sono assenti, la loro assenza diventa un grave pericolo per l’uomo, per la nostra sicurezza e la nostra vita.

Ai giorni nostri il mondo può vivere nella paura del terrorismo oppure nella libertà. La libertà dell’individuo non può essere garantita, così come non possono essere assicurati i suoi diritti, escluso in quelle democrazie preposte al rispetto di queste condizioni. Nemmeno la libertà dal terrorismo può essere garantita, se non offrendo ai giovani l’alternativa della prosperità, dell’opportunità e della libertà. Ad ogni modo, la massima recita così: la democrazia è il nuovo volto della pace. La democrazia non esclude il peccato umano e la follia. Al contrario, la democrazia, con i suoi controlli, gli equilibri, i poteri limitati, fu creata proprio tenendo a mente la natura peccaminosa dell’uomo. Una delle fonti dell’idea di democrazia così come noi oggi la conosciamo ha origine nella convinzione calvinista dell’onnipresenza del peccato. L’abbiamo persino trasferita sulle nostre monete e sui dollari. Diciamo “Crediamo in Dio” e intendiamo “E solo in lui – per tutti gli altri sono necessari controlli, equilibri e poteri limitati”.

In conclusione, sto cercando di imparare a pensare alla libertà dal punto di vista islamico. Alcuni amici musulmani mi hanno spiegato che c’è una grande agitazione in seno a molti popoli musulmani, un forte desiderio di veder riconosciuta pubblicamente la dignità della coscienza individuale di ciascuno di loro. Dicono che si tratta di una ricerca profonda, in quattro diverse dimensioni: quella personale, religiosa, filosofica e politica. Ho sentito musulmani affermare di voler vivere da devoti musulmani sotto la protezione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Vogliono rimanere devoti musulmani e vogliono allo stesso tempo questa protezione. Vogliono godere delle stesse libertà, dignità ed opportunità economiche di tutti gli altri popoli. Non può esser vero che libertà e dignità siano una prerogativa di ebrei, cristiani e umanisti, e che non valgano per i musulmani. Non è credibile.

Mi è stato detto che c’è una forte pressione in chi è alla testa di questo desiderio di libertà, e nasce dagli ultimi cento anni di sofferenza, repressione, dal fallimento dei sogni e dalla dolorosa realtà di tanto sangue versato tra popoli musulmani. Per decenni, la comunità mondiale ha ferocemente negato i diritti umani e il senso della dignità personale nei popoli musulmani, più di quanto questo non sia successo in altri popoli. Si tratta di un cammino accidentato, ma allo stesso tempo di un potente incentivo. Quando ero alla Commissione per i Diritti Umani nel 1981/2 la questione dell’abuso dei diritti umani nei paesi musulmani fu affrontata solo una volta, e più tardi solo marginalmente. I russi non volevano occuparsene poiché rappresentava un potenziale pericolo proprio ai loro confini meridionali, e noi non volevamo parlarne per questioni strategiche, legate non solo al petrolio ma anche alla posizione di crocevia di civilizzazione del Medio Oriente. Comunque, con una sorta di tacito accordo, nessuno se ne occupò.

Ho molte domande che vorrei porre ai musulmani nel corso di una conversazione. E non vedo l’ora di approfittare della luce che potranno gettare su queste problematiche avvolte in un cono d’ombra. È possibile affermare che, sepolta nelle ricche tradizioni dell’Islam, si cela una filosofia di libertà, persino una filosofia di democrazia e pluralismo religioso, il cui pieno splendore deve ancora manifestarsi a chi guarda l’Islam dal di fuori? Sembra ovvio che ciascuna religione basata sulla ricompensa e sulla punizione debba avere in sé un profondo senso di libertà. Ricompensa e punizione per le azioni umane non hanno alcun senso se non si crede nella libertà. Questo è il punto di vista di Tommaso d’Aquino nel suo approccio all’Islam nel XIII secolo. Ci deve essere un fondamento di libertà, alla base. 

La libertà, ovviamente, ha almeno tre dimensioni: personale, sociale e politica. E può essere esaminata da più di un punto di vista – dall’esperienza personale e dall’osservazione, ma anche filosoficamente, giuridicamente, politicamente, culturalmente. Non è mia intenzione chiedere ai musulmani un intero sistematico trattato. Vorrei solo chiedere ai colleghi musulmani alcune indicazioni che a mio avviso potrebbero essere utili per la reciproca armonia e la completa comprensione. Per avere reciproco rispetto non è necessario essere d’accordo, ma è sicuramente meglio se non ci fraintendiamo reciprocamente. Ad ogni modo, è giusto dire che nell’analisi morale delle azioni individuali il pensiero islamico è molto chiaro in merito alla libera azione umana? In altre parole, c’è una teoria di libertà nell’azione morale? Ho visto che i musulmani affrontano le questioni etiche con una notevole percezione della libertà, così come noi la intendiamo. Non sviluppata allo stesso modo, non facente parte dello stesso contesto concettuale, ma non così diversa. Sembra esserci, infatti, un ampio pluralismo di sistemi di decisione politica tra varie giurisdizioni musulmane di diversi luoghi ed epoche. Se si studia la storia islamica e anche la geografia islamica, oggi – io non sono assolutamente un esperto – si nota una grande varietà di regimi, sia nel tempo che nello spazio. E poiché la convinzione che “Allah è grande” è tanto potente, nessuna di queste ci può essere trasferita, può essere applicata alla nostra dimensione. Tutte devono essere relativizzate al pensiero islamico, poiché nessuno da solo può credere di essere Dio. Questo, a mio parere, è un argomento molto importante nell’ambito del pluralismo. E la pratica del pluralismo è evidente, ne vediamo la varietà, sebbene la teoria non sia così sviluppata, a mio avviso.

Comunque ci sono anche un discreto numero di democrazie, definite come luoghi dove i cittadini hanno destituito i governi in carica in modo pacifico, in almeno un paio di occasioni. Da questi esempi sono scaturite proposte pratiche o moniti negativi? In altre parole, cosa possiamo imparare dalla storia della democrazia islamica? A volte si è sottolineata l’impotenza del singolo voto: puoi votare, eserciti questo diritto, ma la maggioranza vota per la Shari’a e basta, finisce così. Questo è un monito. Ma in altre circostanze non è andata allo stesso modo, e sarebbe interessante poter avere una visione d’insieme. Uno dei vantaggi della democrazia è che questa è compatibile con molti diversi modelli religiosi e culturali. Abbiamo qualcosa da imparare dai diversi tipi di democrazie islamiche? Le diverse esperienze di partiti cristiano-democratici in molti paesi al mondo hanno in qualche modo fatto luce sulle esperienze musulmane? Non è un caso se i partiti cristiano-democratici hanno tutti le stesse esperienze in America Latina, Spagna, Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Scandinavia.

In che modo le democrazie islamiche forniscono nuovi principi alla teoria democratica internazionale? Rappresentano esempi significativi? Credo davvero che questa sorta di lotta per l’idea democratica e la pratica e le abitudini democratiche nel mondo musulmano sia uno degli aspetti più interessanti del nostro tempo. E dal suo sviluppo dipende la sicurezza di tutti noi. Vorrei che tutti noi sapessimo qualcosa in più in merito a questo. Vorrei che i musulmani fossero un po’ più espliciti in tal senso. Negli ultimi tre anni sono stati scritti articoli, libri, si è parlato di libertà e di democrazia alla radio e in televisione, più di quanto non fosse mai stato fatto nei 150 anni precedenti. È evidente che qualcosa sta cambiando. Vorrei che potessimo avere una maggiore comprensione di quello che sta succedendo, e poter imparare alcune di quelle lezioni così duramente apprese, e magari fare luce sulle nostre perplessità.

 

(Traduzione dall’inglese di Sara Giunchi)