La libertà di stampa nella Russia di Putin. Il caso Politkovskaja
17 Giugno 2007
“A volte la gente paga con la propria vita per dire a voce
alta ciò che pensa”. A volte, e questa volta è successo davvero che una
giornalista di origine ucraina, una certa Anna Politkovskaja, nota per aver
raccontato senza mezzi termini i lati più controversi della Russia postsovietica nel suo Proibito parlare. Cecenia,
Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin (Mondadori, Milano 2007), il
7 ottobre 2006 sia stata ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa
da quattro colpi di arma da fuoco. Pochi giorni dopo, per la precisione il 9
ottobre, sarebbe dovuto uscire un articolo che conteneva una grave denuncia
contro Ramzan Kadyrov e i suoi uomini, per le torture e i trattamenti disumani
ai danni di prigionieri e presunti guerriglieri ceceni.
Anna Politkovskaja era una giornalista della “Novaja Gazeta”
presso la cui redazione era approdata nel 1999. Un lavoro, oserei dire una
passione, che la portava ad ascoltare le richieste delle madri dei soldati e
dei giovani spariti nel nulla, a denunciare le ingiustizie commesse in
territorio ceceno e russo e le inchieste per reati di corruzione regolarmente
insabbiate in patria.
I crimini e le nefandezze commesse dall’esercito russo in
Cecenia, le vicende della scuola di Beslan e del teatro Dubrovka, che hanno
tenuto tutto il mondo con il fiato sospeso, un veloce excursus sulla
Russia di oggi, breve ma sufficiente a chiarire come la legalità per il governo
Putin sia ancora un optional sono i temi principali che la giornalista ha
affrontato nella sua opera e che hanno destato il timore dei vertici di Mosca.
La Cecenia è ad oggi un paese in cui giurisdizione e
giustizia sono due termini ancora sconosciuti alle autorità, ovvero satelliti
del governo russo, che la governano. Si susseguono esecuzioni di massa nei
piccoli villaggi del paese, rapimenti da parte di “sconosciuti armati e
mascherati”, come è accaduto al giovane ventiduenne
Muslim Bubaev, rapito nel dicembre 2004, molto probabilmente non dai federali
ma dagli stessi ceceni. Infatti, da quando Mosca ha piazzato in Cecenia Kadyrov
e gli uomini a lui fedelissimi, i sequestri di persona compiuti con ferocia,
senza lasciare una minima traccia, sono compiuti sia dai federali che dai
kadyrovcy.
Ramzan Kadyrov, il figlio dell’ex vicepremier ceceno Akhmad
Kadyrov, il pupazzo ceceno di Mosca a cui la Politkovskaja ha dedicato
diverse pagine affatto lusinghiere. Nominato governatore della Cecenia dopo
l’assassinio del padre, durante il suo governo è notevolmente aumentato il
diffuso clima di paura e diffidenza. Attraverso una impeccabile campagna
pubblicitaria condotta all’estero e all’interno, Kadyrov è riuscito a far
credere che grazie a lui la situazione cecena abbia guadagnato in stabilità e
che il paese è in via di ricostruzione.
Nonostante l’immagine di un Kadyrov “edificatore”, la realtà
è un’altra: tutti hanno paura di tutti, nessuno è al riparo dalle delazioni di
amici e parenti, sono aumentati i rapimenti, le torture e gli omicidi. E poi,
dov’è la ricostruzione tanto decantata da Kadyrov? I villaggi ceceni non
possono neppure definirsi tali. Sono piuttosto una serie di microquartieri e
nella peggiore delle ipotesi delle “baraccopoli” o meglio ancora degli
“accampamenti”, veri e propri: tuguri di legno non verniciati, messi
insieme in fretta e furia e circondati da tubature interrotte.
Questa, e non è certamente una giustificazione, è la
drammatica situazione che ha portato i nazionalisti ceceni a compiere i
gravissimi attentati del Teatro Dubrovka. Il delirio più completo, in quei
giorni, aveva cominciato a diffondersi fra i parenti delle vittime, che mentre
seppellivano i corpi dei loro cari chiedevano aiuto e giustizia al governo di
Mosca. I vertici, anche questa volta, come sottolinea la Politkovskaja, sono
rimasti distanti dal dolore dei cittadini.
Dov’era Kadyrov padre quando i terroristi hanno preso come
ostaggi gli spettatori del Nord-Ost? Era stato invitato dai guerriglieri
ceceni, proprio lui, il capo della Cecenia, il prescelto di Putin, ed in cambio avrebbe ridato la libertà a
cinquanta ostaggi. Non ci andò, spiegando in seguito che non l’avevano
avvertito. Dov’era Putin? L’avrebbe fatto, come qualcuno ha insinuato, se ci
fossero state le sue figlie ad assistere allo spettacolo?
Francamente, il comportamento dei vertici moscoviti “ci fa
un po’ schifo” come ha affermato anche la Politkovskaja. E non è un caso che in occasione del
lancio di un nuovo rapporto sulle violazioni dei diritti umani in Russia,
Amnesty International abbia definito il sequestro degli ostaggi al Teatro
Dubrovka “un altro esempio della clamorosa mancanza di rispetto per i
diritti umani della gente comune” nella Federazione Russa.
Se i fatti verificatisi nell’autunno del 2002, da una parte,
hanno acuito il senso di smarrimento e distanza del popolo russo dalle
autorità, dall’altra hanno avuto la conseguenza di inasprire il forte
sentimento di appartenenza ceceno, dando vita ad una profonda ammirazione verso
quelle donne kamikaze che si sono sacrificate in nome della causa comune. Madri
e mogli che hanno deciso di morire per vendicare la sparizione e/o la morte dei
loro figli e dei loro mariti, senza preoccuparsi, però, di mettere in pericolo
la vita di giovani o adulti che potevano avere la stessa età dei loro
famigliari scomparsi.
Concezioni scioccanti che non possono non riportarci con la
mente alla tragedia di Beslan, verificatasi nel settembre del 2004, che ha
avuto delle conseguenze drammatiche per l’intera comunità cittadina. La rabbia
dei genitori dei bambini morti nell’attentato, si è riversata e continua a
farlo ancora oggi nei confronti dei sopravvissuti, in particolar modo di quelle
maestre, ree di non aver salvato i loro alunni e di aver pensato solo alla
propria salvezza.
Può capitare che un immenso dolore possa tramutarsi in odio
feroce verso coloro che hanno avuto la fortuna/sfortuna di restare in vita. E
dico, riprendendo le testimonianze raccolte dalla Politkovskaja,
fortuna/sfortuna perché alcune di queste insegnanti, come Elena Sulidinovna
Kasumova, o come la stessa preside, Lidija Aleksandrovna, vivono ormai da diverso
tempo chiuse nelle loro case, schiacciate dai sensi colpa e dalla vergogna che
provano ogni volta che, uscendo, incontrano i genitori dei loro ex alunni.
Paradossalmente, dei terroristi, che sì vengono maledetti ma
mai come gli insegnanti sopravvissuti, si parla pochissimo e di Putin, sebbene
nessuno l’abbia mai visto recarsi a Beslan ad esprimere il suo cordoglio ai
parenti dei defunti, non se ne parla proprio. E’ come se si fosse verificato
uno slittamento di responsabilità che ha portato, apparentemente senza un
valido motivo, alla creazione di una verità assurda, a tratti mostruosa, dove i
genitori, non riuscendo a darsi pace, considerano come carnefici coloro che
sono in realtà delle vittime.
La posizione russa di “tolleranza zero” nei confronti del
terrorismo forse per certi versi può essere considerata legittima. La strategia
del premier Putin inizia, tuttavia, ad essere poco sostenibile quando le vite
dei civili vengono messe in pericolo e soprattutto quando lo Stato non fa nulla
per garantire la sopravvivenza degli ostaggi russi. E poi, non converrebbe
domandarsi il perché? Cercare di individuare la ragione a monte di quegli
attentati che hanno colpito la coscienza della società russa non
significherebbe scendere a patti con i nazionalisti ceceni, né tantomeno
giustificare il loro operato, che resta sotto ogni punto di vista esecrabile.
Una cosa credo però sia chiara e condivisibile: forse
qualcuno dovrebbe ricordare ai russi le loro gravi responsabilità, la loro
politica della terra bruciata, le atrocità che hanno compiuto per anni contro
il popolo ceceno. Un terrorismo che, è vero, ha colpito in modo drammatico la
Russia, ma di cui Putin è stato abile stratega nell’attizzarne il furore e la
follia.
Resta un ultimo nodo da sciogliere, quello della condizione
della società russa nel XXI secolo. I cittadini russi non sono esonerati da
abusi di potere, da una giustizia fantasma e da un giornalismo sempre
legatissimo ai vertici. Un anno e mezzo fa, due studenti universitari, usciti
per festeggiare l’esito di un esame, sono stati malmenati e considerati due
tossicodipendenti, non sono stati aiutati né da una pattuglia della polizia che
passava da quelle parti, né dai medici dell’ospedale in cui sono stati
trasportati l’indomani mattina. Solo grazie all’intervento della madre, Denis
Vasil’ev, uno dei due ragazzi picchiati, ha ricevuto le cure adeguate anche se
tardive ed è tutt’ora sottoposto ad “una terapia sistematica”. L’orrore infernale di questa storia non
appartiene a un caso isolato. Né clamoroso. L’orrore sta nella sua prosaicità.
Tutti in Russia conoscono quel tipo di sbirri, di medici e la cieca
indifferenza delle strade, ma poco viene fatto, forse perché spesso non si può
fare, per modificare la situazione.
Il trend verso l’autoritarismo nella Russia di oggi è
innegabile. Istituzioni come i servizi segreti, l’esercito e il complesso militare-industriale,
si sono rinvigorite sotto la presidenza Putin, costituendo la base del nuovo
autoritarismo, a discapito della crescita economica, della creatività umana e
della libertà di iniziativa, di cui l’assassinio della Politkovskaja è un
limpido esempio. Il pensiero di molti in Occidente, e la Politkovskaja sarebbe
stata d’accordo, è che il popolo russo merita, senza mezzi termini, una
maggiore trasparenza, una maggiore tutela e soprattutto un maggiore rispetto da
parte dei suoi governanti. Non ha bisogno di premier, che insieme alla loro
cerchia di fedelissimi alquanto distanti dalla legalità, vogliono fare della ex
Unione Sovietica una grande potenza, senza garantire ai propri cittadini quella
libertà di pensiero che è alla base di ogni stato di diritto che si rispetti.
Uno stato che si definisce democratico, infatti, dovrebbe
considerare i suoi giornalisti, come una ricchezza aggiunta, e non come dei
pericolosi informatori per i quali sia opportuno commissionare degli omicidi ad
hoc.