La libertà e il coronavirus: tra incertezze, perdita di senso e smarrimento comunitario
16 Marzo 2020
E’ tutto molto surreale. Ogni giorno si ripete più o meno come quello precedente e, improvvisamente, la realtà ci costringe a svegliarci da quello che sembrava un sonno più o meno inconsapevole. D’altronde – e fallacemente – l’imprevisto è in qualche modo messo all’angolo in una società che crede di avere raggiunto granitiche e meravigliose certezze.
Tutto scorre imperturbabile nell’imperscrutabile domani. Siamo abituati a pensare o, meglio, a non pensare come il domani sarà. Più o meno come si è svolto l’oggi e come, prima del giorno presente, è trascorso il giorno passato. Abbiamo raggiunto una invidiabile condizione di prosperità, se ci paragoniamo a momenti della storia in cui, da un momento all’altro, poteva crollare – letteralmente – tutta la fragile impalcatura umana. Carestie, epidemie, calamità naturali. Insomma, cesure tra un prima e dopo. Nette, drastiche, effettivamente radicali. Fratture che implicavano morti e distruzione delle costruzioni umane. Epperò, qualcosa che univa si trovava. Un principio motore, un carburante più o meno eterno, un elemento propulsore che consentiva di andare avanti. Credere in qualche cosa, anche dopo la più disastrosa delle tragedie, che avrebbe consentito alla vita di continuare, ai giorni di scorrere, al presente di legarsi, tramite il passato, all’avvenire.
Certo, è facile scrivere questo senza aver vissuto, per l’appunto, una carestia letale, una esiziale calamità naturale o un’epidemia micidiale. Ma l’attuale situazione che, speriamo solo in modo residuale, può essere vista come una di quelle spaccature tra un prima e un dopo a cui si accennava poc’anzi, porterà, e sta già portando con sé, alcuni interrogativi di fondo. Per le risposte ci sarà tempo. Dopo tutto, esse necessitano di ponderazione, affinché siano almeno un po’ adeguate alle sfide da cui scaturiscono. Cosa alla quale, ahimè, la politica contemporanea assai poco ci ha abituati. Passata l’emergenza, le domande si faranno però sentire, assordanti. Speriamo, almeno.
Ci beiamo, più che altro per neghittosa inerzia, nella condizione di benessere, agiatezza e libertà che l’Occidente ci dà ogni giorno. Non sarà il migliore dei mondi possibili, ma senza dubbio siamo fortunati, è bene non dimenticarlo – e non farsi abbacinare da ammalianti richiami cinesi o magari latinoamericani. Tutto è scontato, se l’opulenza non viene in qualche modo compresa. Se ad essa non si dà il giusto valore, frutto di sacrifici fatti da chi ci ha preceduto, il rischio è quello di deprezzarla. Non in termini monetari, ovviamente. Piuttosto, in relazione alle infinite opzioni che essa ci fornisce, così come in termini di senso. Tutto deve essere conquistato, giorno dopo giorno, affinché non si perda quello spirito di sacrificio, senza il quale l’anima e il corpo s’imbolsiscono. Magari solo con qualche impercettibile azione o una qualche misera riflessione. È così che si può provare a non perdere lo straordinario tesoro accumulato. Col poco si fa il tanto, recita un semplice detto popolare. È così, almeno un po’.
Basti pensare a quando Gandalf, ne Lo Hobbit, alla domanda di Galadriel sul motivo della scelta di Bilbo per la straordinaria missione che lo attendeva, risponde più o meno in questo modo: “Saruman ritiene che soltanto un grande potere riesca a tenere il male sotto scacco. Ma non è ciò che ho scoperto io. Ho scoperto che sono le piccole cose, le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore”. I pericoli, le insidie che possono improvvisamente turbare la nostra ordinaria quotidianità, è pacifico, richiedono misure diverse a seconda della gravità del contingente. Ma, certamente, necessitano prima di tutto di un cambiamento, magari anche doloroso, delle nostre abitudini.
Se il prezzo della nostra libertà futura consiste, pertanto, in una parziale e limitata nel tempo riduzione della stessa, è doveroso compiere un sacrificio. Se il pegno da pagare è la momentanea riduzione del nostro individualismo per un bene comune in cui è compresa anche il nostro bene individuale, non ci si può negare. Dopo tutto, in una società aperta, non c’è comunità senza individui, così come, allo stesso tempo, affinché la comunità non sia un ferreo e incrollabile blocco chiuso, essa poggia su entità individuali differenziate ed eterogenee. Ma siamo ancora in grado di pensare ad un individualismo che non sia uno sradicamento disorientato e disorientante?
Siamo talmente assuefatti al vivacchiare giorno per giorno senza una meta, all’esperire una libertà puramente dedita allo scegliere questo o quello, ad un’emancipazione totale, slegata e disancorata da un qualche tipo di limite, qualche punto di riferimento o qualche orizzonte di senso più ampio, che non siamo più in grado di sapere chi siamo e dove stiamo andando. Sia detto chiaramente: la libertà è prima di tutto libertà da vincoli esterni, dalla coercizione fisica. Ma basta questo per definirla? L’impressione è che sia necessario coltivare anche qualcosa di più. Una libertà che recuperi un certo spirito comunitario – certamente da tempo guastato da una statizzazione e una democratizzazione della società di matrice progressista che è causa dell’inaridimento del senso di comunità – è imprescindibile per una società solida e fiduciosa: non solo in quello che è, ma anche in quello che sarà o potrà essere.
Come Frodo testimone riluttante della nuova insorgenza del male ne Il Signore degli Anelli, anche noi mai avremmo desiderato vivere una crisi come quella odierna. Epperò, come gli risponde saggiamente Gandalf, non tocca a noi scegliere sempre. Vi sono cose che succedono, semplicemente, e per questo vanno affrontate. Ciò che possiamo – e dobbiamo – fare, questo sì, è decidere come disporre del tempo che ci viene dato. Cerchiamo di vincere il nemico del momento, il coronavirus.
Ma non dimentichiamo che, in seguito, dovremo sconfiggere un avversario forse ancora più ostico e insidioso: noi stessi, col nostro individualismo illimitato, la nostra incapacità di immaginare orizzonti altri, sia spaziali che temporali, il nostro essere “io” senza “noi”.