La Libia è un fronte secondario, la vera guerra è contro l’Iran
02 Aprile 2011
Sono passati circa dieci giorni dall’inizio dell’operazione Odissey Dawn, con la quale il mondo occidentale ha lanciato la sua sfida alla Libia del Colonnello Gheddafi, ma ancora oggi un dubbio serpeggia nella mente di tanti cittadini europei ed americani: perché proprio la Libia? Perché Tripoli sì, e Teheran no? Perché l’Occidente ha deciso di proteggere la popolazione libica dalle rappresaglie del rais e non ha voluto fare altrettanto per le masse iraniane, ripetutamente represse dalle milizie degli ayatollah? Eppure il regime di Teheran è indubbiamente molto più pericoloso di quello di Tripoli, e le minacce degli ayatollah sono sicuramente più gravi e credibili delle folkloristiche dichiarazioni del Colonnello.
Come ha dimostrato un recente documentario, Iranium, sono numerosissime le prove che c’è la mano del governo di Teheran dietro i maggiori gruppi terroristici in Medio Oriente, mentre in Iraq ed Afghanistan il regime di Ahmadinejad fornisce le armi che fanno stragi di civili e di militari della coalizione. Dunque, come minimo, bisognerebbe riservare un’attenzione al teatro iraniano almeno uguale a quella degli altri paesi, dall’Egitto alla Libia. Invece niente, perché? Una risposta a queste legittime domande prova a darla sul suo blog Michael A. Ledeen, che individua nell’“incapacità di questa Amministrazione di leggere la situazione” la causa principale dei tanti errori commessi da Washington. In sostanza il governo americano tratta la questione libica come se fosse “unica”, e non rientrasse invece in un contesto più ampio. A Washington sembra non tengano conto del fatto che quella che va vinta non è la guerra contro il rais di Tripoli, ma quella che Ledeen chiama la “big war”, la guerra più ampia, che dovrebbe portare ad un cambiamento strategico della situazione mondiale.
Far cadere Gheddafi è “un obiettivo auspicabile, ma non è una missione cruciale, strategica. Dovremmo piuttosto puntare ad un regime change in Siria ed Iran”. Insomma, conclude Ledeen, quello libico “è il campo di battaglia sbagliato”. Per vincere la big war è necessario trasferire la battaglia a Teheran ed a Damasco, cosa che non richiederebbe nemmeno un intervento diretto, come quello libico, niente bombe né boots on the ground, con tutti i rischi che ne derivano; basterebbe fornire aiuto politico, economico, tecnologico ai tanti cittadini coraggiosi che sfidano il regime manifestando per le strade. D’altra parte, se è giusto intervenire in Libia per fermare la sanguinaria repressione del regime, a maggior ragione dovrebbe essere logico intervenire in Siria ed Iran. Viene davvero da chiedersi cosa stiamo aspettando? Che gli ayatollah si dotino definitivamente di un arsenale nucleare? Come nota Michael Oren, ambasciatore israeliano a Washington, “Gheddafi scelse di rinunciare unilateralmente al proprio programma atomico nel 2004, spegnendo le centrifughe di cui disponeva, e lo decise perché pensava di essere meno sicuro con la bomba, anziché senza”, aiutato in questa valutazione anche da quanto stava avvenendo in Iraq (chiaramente il rais libico temeva di essere “il prossimo”).
Ma quanto sta avvenendo in Libia dimostra al contrario che si è più al sicuro con la bomba che senza, è questo l’insegnamento che sta traendo l’Iran dalla situazione internazionale. Nessuno infatti pensa davvero che l’Occidente sarebbe intervenuto in Libia se il rais fosse stato in possesso del deterrente nucleare, e sicuramente non lo pensano gli ayatollah. Per questo è particolarmente importante non farsi distrarre dal conflitto libico e non perdere di vista lo scenario nel suo complesso, perché altrimenti il rischio è di dimenticare il vero obiettivo dell’Occidente, la stabilità dell’intera area mediorientale, non solo quella di un singolo paese. D’altra parte, come recita un vecchio detto: quando il saggio indica la luna, solo lo stolto guarda il dito.