La Libia è un test per la Turchia. Erdogan scelga da che parte stare

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La Libia è un test per la Turchia. Erdogan scelga da che parte stare

08 Aprile 2011

"Abbasso Erdogan", "Erdogan chieda scusa", "la Turchia ha tradito il popolo libico". Ieri per la prima volta un gruppo di manifestanti è sceso in piazza a Derna, nella Libia orientale, per protestare contro il governo di Ankara e chiedere alla NATO di intervenire con più decisione a sostegno dei ribelli di Bengasi. Ma cosa si nasconde dietro questi slogan? La Turchia ha deciso di partecipare all’impresa libica con scopi umanitari, per tener fede alla missione che si è data ormai da molto tempo: diventare la potenza-guida del mondo musulmano, amica di tutti e nemica di nessuno, che viaggia a tassi di sviluppo che l’Europa di sogna, ed è proiettata verso le sue tradizionali aree di influenza, dai Balcani al Caucaso, dal Mediterraneo al Medio Oriente. Il "neo-ottomanesimo", come lo chiamano ad Ankara.

In Libia, i turchi stanno provando a giocare una partita difficile che altrove li vede già impegnati, tanto più adesso, nel caos delle rivoluzioni arabe, in un momento in cui Ankara corre il rischio di trovarsi circondata da regimi sul punto di cadere e dalla tentazione del fondamentalismo islamico. Erdogan, che pure di quell’islam politico è uno degli alfieri, ha parlato più volte con Gheddafi. Il ministro degli esteri turco Davutoglu ha incontrato gli emissari del rais e poi quelli del Consiglio Nazionale di Transizione per arrivare ad un "cessate il fuoco". La Turchia si è opposta al protagonismo di Parigi opponendogli la solida quanto concertata azione della NATO. Non sono pochi gli osservatori che apprezzano questi sforzi, governo italiano compreso: è stata una nave turca (Ankara ha schierato la forza navale più consistente dall’inizio della guerra) a prestare soccorso ai civili rimasti feriti durante gli scontri avvenuti nella città di Misurata.

La politica dello "zero problemi con i vicini", coniata da Davutoglu, si estende ad altri Paesi politicamente instabili: l’Egitto, dove i turchi, pur sperando sul lungo periodo di ammansire i Fratelli Musulmani e renderli una forza omogenea al partito della Giustizia e dello Sviluppo, per adesso preferiscono appoggiare la giunta militare al potere; la Siria, dove la missione è persuadere Assad a non usare la forza per reprimere il dissenso interno e aprire alle riforme, evitando anche in questo caso la deriva islamista; i Paesi del Golfo Persico, le ricche petrocrazie sull’orlo della rivolta, con cui Ankara nelle ultime settimane ha dialogato quotidianamente. Qui la Turchia cerca un punto di equilibrio tra le altre due grandi potenze dell’area, l’Arabia Saudita e l’Iran, nel contesto della guerra mondiale islamica fra sunniti e sciiti. Infine, l’eterno conflitto fra israeliani e palestinesi, con l’obiettivo di evitare una nuova escalation fra Hamas e lo stato ebraico, evitando un’altra guerra di Gaza che finirebbe per rafforzare la fratellanza egiziana. Certo, poi la memoria torna alla Freedom Flottilla ed anche questo scenario diviene appannato per non dire infausto.

Il problema, come osserva Stratfor, è che una potenza in ascesa come la Turchia più si impegna su diversi fronti più corre il rischio di dover abbandonare, prima o poi, la sua equidistanza e doversi schierare: con i ribelli di Bengasi o con il Rais, con Assad o i suoi oppositori, con il blocco che fa capo ai sauditi o con Teheran… L’intervento in Libia, da questo punto di vista, è un primo passo: cercare la quadra nella guerra che stiamo combattendo, obtorto collo, magari accelerando l’uscita di scena del Rais, per Ankara è un modo di legittimarsi come interlocutore credibile agli occhi degli Stati Uniti. Sotto la presidenza di Obama gli Usa hanno ‘abdicato’ al loro ruolo chiave nel mondo arabo e musulmano. Un giorno non troppo lontano Ankara potrebbe svolgere la stessa funzione gravitazionale verso l’Iraq.

Ma prima Erdogan deve scegliere da che parte stare. Con l’Alleanza Atlantica o con i dittatori sparsi in giro per il mondo, con i mullah iraniani o contro di loro. E’ notizia di qualche giorno fa che le autorità turche hanno denunciato la presenza di un carico di armi provenienti dall’Iran in violazione alle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite a Teheran. Le parole di fuoco usate da Ahmadinejad nelle ultime ore, "l’Occidente vuole creare un conflitto fra Iran e Arabia Saudita, tra sunniti e sciiti, per salvare Israele che è sull’orlo del collasso", esprimono il timore dell’establishment iraniano di restare davvero totalmente isolato da un punto di vista economico e diplomatico. Se Ankara negasse ogni sponda a Teheran i patrioti iraniani che hanno a cuore il destino del loro Paese avrebbero delle chance in più di rovesciare il regime khomeinista.

Se fino adesso la politica estera turca si è mossa a trecentossessanta gradi, con l’obiettivo di sfruttare tutte le opportunità geopolitiche aperte dal suo decollo economico, è arrivato il momento di prendere una direzione politica, una rotta chiara, che segua quella naturale vocazione storica del Bosforo come punto d’incontro fra il Mediterraneo e il Mar Nero, la civiltà occidentale e quella orientale, l’Europa e il mondo islamico. Già, l’Europa. Un obiettivo, quello di entrare nell’Unione, che appare passato di moda nei caffé e nei palazzi del potere turchi. Conta più la Russia, rivale ed amica perché sfama i bisogni energetici di Ankara. Di recente il capo-negoziatore di Erdogan per l’ingresso nella Ue, Bagis, in visita a Parigi, ha spiegato che se la Turchia avesse un posto a Bruxelles anche l’islam europeo diverrebbe più moderato. Ma finché non avremo capito da che parte stanno i turchi, considerando l’islam europeo che abbiamo conosciuto fino adesso, quelle parole sembrano prive di senso.