La lite nel centrodestra ha già mandato in tilt Pd e centro
22 Aprile 2010
La battuta, evidentemente, l’aveva sognata da sempre. E dopo lunga attesa è finalmente riuscito a pronunciarla. “Mentre il Pdl è alle prese con le correnti, il Pd si occupa del paese reale”. E’ Enrico Letta a scandire queste parole che per anni, anzi decenni, si è sentito pronunciare contro. E la soddisfazione della piccola rivincita è palpabile. Avviene anche questo nella galassia sbandata del centrosinistra che si trova a fare i conti con le fibrillazioni della maggioranza e guarda, come al solito dividendosi, alla variabile Gianfranco Fini.
Le diverse anime dell’opposizione riflettono, si interrogano, coltivano speranze e preoccupazioni, inseriscono nel computo delle opzioni possibili anche la discesa in politica di Luca di Montezemolo, alla luce della sua fuoriuscita dalla Fiat. A nessuno sfugge che un eventuale progetto centrista potrebbe rimettere in moto dinamiche non bipolari. E molti ritengono che non si possa escludere che la geografia stessa dell’opposizione vada a ridisegnarsi.
Così è inevitabile che si apra subito una dialettica fra Massimo D’Alema, che chiede di dialogare con Casini e lo stesso Fini, mentre Dario Franceschini insiste sulla difesa del bipolarismo. Le due posizioni emergono al convegno dei Liberal del Pd, durante il quale Pierluigi Bersani conviene sulla magmaticità della situazione politica, tanto da sottolineare di “non escludere nulla” sull’identità del futuro candidato premier del centrosinistra.
La crisi apertasi dentro al Pdl consente a Bersani di togliersi qualche sassolino dalle scarpe, a proposito dell’esito delle Regionali, e di maramaldeggiare sposando tesi da talk-show elettorale. “E’ la dimostrazione che il Pdl non ha vinto”.
Nel Pd sono in molti a pensare che la ricucitura Fini-Berlusconi sarà difficile. Resta la domanda sul che fare. Bersani definisce “una pazzia, una follia” elezioni anticipate, che a suo giudizio porterebbero all’esplosione dell’astensionismo, perché le urne sarebbero “difficilmente spiegabili ai cittadini”. E qualcuno si spinge fino al “diritto-dovere di Berlusconi di governare”. Sulla strategia da tenere, però, si naviga a vista.
D’Alema propone una mossa ben precisa da parte del Pd, cioè un’apertura “nel confronto sulle riforme” verso Fini. Un’apertura che andrebbe a tutto danno del bipolarismo a favore di una scomposizione e ricomposizione delle coalizioni. Dario Franceschini mostra di avere un’idea completamente opposta e rispedisce al mittente l’idea di un abbandono del bipolarismo, liquidandola come puro tatticismo. Bersani propone una “convergenza repubblicana” per evitare una “spallata plebiscitaria” del premier. I primi abboccamenti e aperture di dialogo si verificano però su un altro tema: quella dell’immigrazione. Il teatro del confronto è la presentazione del libro di Fabio Granata, deputato Pdl di stretta osservanza finiana, “l’Italia a chi la ama”. E’ qui che Walter Veltroni auspica che si possa approvare una legge per la cittadinanza e per il voto agli immigrati con “consensi trasversali in Parlamento”. E non c’è dubbio che questa materia sarà quella che verrà monitorata con maggiore attenzione nelle prossime settimane per verificare le eventuali convergenze.
In ogni caso il quadro è ancora nebbioso e non esiste affatto una sensibilità condivisa sul da farsi. Tanto che il senatore del Pd Giorgio Tonini, considerato un veltroniano, in un’intervista al Foglio si spinge fino ad augurarsi che Gianfranco Fini non esca dal Pdl. "Sbaglia – spiega Tonini – chi come D’Alema crede che per il bene del Pd sia necessario che Gianfranco Fini esca dal Pdl. Teorizzare che il nostro Paese si trova in una fase in cui è necessario rinunciare al bipolarismo è un errore. Posso dire che nel Pd siamo invece molti, me compreso, che per il bene del Paese ci auguriamo che Gianfranco Fini rimanga. La sua permanenza nel partito di Berlusconi è fondamentale anche per far diventare quel partito più democratico di come lo è adesso". "Sperare che Fini porti all’esterno del Pdl la sua esperienza secondo me oggi non ha molto senso” conclude Tonini.
Chi, invece, ci crede davvero è Francesco Rutelli. "Ho parlato con Gianfranco Fini e l’ho trovato lucido sul senso della sua scelta, ma anche amareggiato per come viene percepita nel suo schieramento. Quello che non trova nel Pdl è il gioco di squadra”. Una premessa che non lascia prefigurare all’orizzonte, a suo dire, la nascita di un terzo polo. "L’Italia – spiega – non è più quella dei due poli e tanto meno dei due partiti che hanno perso milioni di voti in pochi mesi. L’astensione, poi, è un segno molto forte. Mi colpisce – rimarca Rutelli – come sia il Pd a dire che non vuole eventuali elezioni anticipate. E’ il primo caso al mondo di un partito di opposizione che non vorrebbe giocarsi la chance di ribaltare l’esito delle votazioni che lo hanno visto perdere”.
In tale quadro, Rutelli è convinto che sia necessario "unirsi per fare le cose che servono davvero al paese”, perché ”c’è una nuova pagina bianca da scrivere”. E ”una terza forza è credibile solo così: se si resta Guelfi e Ghibellini – nota – vince sempre Berlusconi. Che però non riesce a riformare questo paese". "Io farei una nuova coalizione della crescita", scandisce Rutelli, trovando il modo "per tagliare la spesa e cambiare il fisco".
Se il Pd, insomma, vede in Fini una sponda berlusconiana ma sotto sotto spera che non si spinga troppo oltre, Rutelli coltiva aspirazioni opposte e punta forte sul presidente della Camera.
Sullo sfondo, poi, si staglia il silenzio di Pier Ferdinando Casini. Un’attesa enigmatica che qualcuno interpreta come diffidenza verso una crisi aperta all’indomani di una vittoria elettorale. Una circostanza anomala che, nel lessico democristiano, richiama alla memoria la parola prudenza.