La lobby dei neocon non esiste ma fa comodo crederlo
25 Marzo 2007
Ennio Caretto, dopo molti altri some lui, ha appena scoperto, sulle pagine del Corriere della Sera, il “dopo-neocon”, o quello che il giornalismo presume essere tale. Ovvero la sconfessione pubblica (Casa Bianca compresa) della politica estera decisionista perseguita dagli Stati Uniti nella guerra contro il terrorismo internazionale e ispirata dalla (per alcuni ostaggio della) cultura del neoconservatorismo. Che però è un po’ come avere scoperto l’acqua calda. Infatti, il paginone che il giornalista italiano inviato a Washington ha dedicato al tema sull’edizione del 12 marzo del più diffuso quotidiano nazionale è anzitutto, fra una malizia e l’altra, ripreso di sana pianta (per non dire altro) da un articolo pubblicato il 10 novembre 2006 da James Traub su The New York Times. E vabbè. Ma soprattutto si tratta di un tema che negli Stati Uniti tiene banco, a un certo livello, almeno da un paio d’anni.
Le controversie legate alla guerra in Irak (e la “sindrome del Vietnam” che, comunque sia, essa si porta dietro), le polemiche (mai innocenti) sulla linea seguita dall’Amministrazione guidata da George W. Bush jr. per la politica estera, nonché il deciso successo del Partito Democratico nelle lezioni di mid-term del novembre scorso ne sono il segno, e spesso sia la causa sia l’effetto. Così, lo scontro fra i seguaci del cosiddetto “idealismo” neoconservatore e gli adepti del cosiddetto “realismo” alla Henry Kissinger – uno scontro del resto mai sopito anche nei periodi più apparentemente dominati dalla bonaccia – torna a farsi oggi prorompente. Sul fuoco soffia pure, ovviamente, la prospettiva delle elezioni presidenziali del novembre prossimo.
Va peraltro subito notato un fatto. La controversia sulla politica estera è il segno tangibile del livello e della qualità del dibattito sia politico sia politologico di cui sono costantemente capaci gli Stati Uniti, anche quando i contendenti si cimentano – come in questo caso – in questioni spinose e talora persino sdrucciolevoli. Segno, cioè, di un Paese vivo e vivace, che, mai attardato in serie B, riesce sempre e comunque a respirare con profondità e con ampiezza. Cose, insomma, che la politica di casa nostra nemmeno si sogna.
Detto questo, va ricordato che una chiave di volta significativa dell’intera questione è stata la fondazione, nel 2005, del periodico The American Interest per iniziativa di un gruppo d’intellettuali e di analisti “neorealisti” – Zbigniew Brzezinski, Eliot Cohen e Josef Joffe – guidati da Francis Fukuyama. Un fatto subito salutato come il segno del definitivo tramonto dei neocon.
Ora, The American Interest suona sin dal nome come un’alternativa – polemica – a The National Interest, il periodico che Irving Kristol (il “padrino” riconosciuto dei neocon) fondò nel 1985 proprio come voce (ancorché poliedrica) della politica estera neoconservatrice statunitense. Non a caso The American Interest nasce infatti da una spaccatura in seno a The National Interest. Ebbene Fukuyama sembra oggi essere il punto di riferimento di un certo “neorealismo” in politica estera, ma va anche sottolineato che mai è stato un neocon, anche se normalmente così lo descrivono tutti quei commentatori, abbondantissimi in Italia, che chiamano sbrigativamente neocon – e oggi pure teocon – chiunque negli USA formuli opinioni non smaccatamente liberal o comunque di sinistra. Quindi, su questo piano, nessun voltafaccia dei neoconservatori, immaginandoseli delusi, pentiti o magari furbastri. Semplicemente due scuole di pensiero che da tempo, da sempre, navigano acque diverse.
Certo, il ritorno di un certo “neorealismo” alla Henry Kissinger appare ora rafforzato da alcune scelte politiche operate da Bush dopo quelle elezioni di mid-term che hanno riportato in auge vecchi esponenti dell’entourage di George W.H. Bush, Bush senior insomma. Molti dei neocon che hanno spalleggiato o “diretto” la politica estera USA degli ultimi anni sembrano infatti oggi assai meno ascoltati alla Casa Bianca di quanto non sia successo solo ieri. Ma è bene proporre qualche elemento ulteriore di quadro.
Il citato periodico The National Interest venne creato da Kristol come fratello minore del trimestrale The Public Interest di 20 anni più vecchio. Nato a sinistra, The Public Interest è poi transitato a destra e ha finito per incarnare la storia stessa del neoconservatorismo statunitense. E The Public Interest, proprio a ridosso dello scisma interno a The National Interest da cui è nato The American Interest ha cessato le pubblicazioni dopo 40 anni di onorata carriera. In sostanza, per “missione compiuta”, avendo allevato una seconda, nuova generazione neocon e avendo portato le istanze neconservatrici al centro stesso del dibattito poltico e culturale della Destra statunitense. Su questo piano, dunque, successo palese dei neocon, un successo insidato oggi dai “neorealisti” forti dei molti, oggettivi problemi che la guerra in Irak sta comportando.
In generale, la questione è infatti questa. Da un lato i neoconservatori sostengono che, nello scenario successivo alla Guerra Fredda (quello che non ha visto affatto la “fine della storia” preconizzata da Fukuyama) e in un clima di “scontro fra le civiltà” (come disse Samuel P. Huntington, già maestro di Fukuyama), non solo l’attacco è la difesa migliore dei confini, ma pure la più realista. Dall’altro i “neorealisti” che rivendicano il monopolio del pragmatismo accusando i primi d’“idealismo” e di “unilateralismo”, e propendendo per linee poltiche meno tranchant.
Il fatto pero è che i secondi sono diretti discendenti (e talora le medesime persone) degli apostoli di quella che a suo tempo, e in riferimeno al confronto con l’Unione Sovietica, veniva definita politica del contenimento, una politica che in molti e decisivi e drammatici casi si è rivelata solo un palese cedimento. Le due scuole di pensiero, insomma, si oppongono e si diversificano proponendo l’una il decisionismo detto “idealista” che però appare l’unica scelta realista a fronte della grave situazione internazionale, se in codesta grave situazione internazionale si ha a cuore il successo e non solo la stasi; l’altra l’attendismo ammantato di diplomazia che si finge pragmatico solo per dissimulare diverse (e a questo punto assai pericolose) valutazioni dello scontro in atto e della posta in gioco. Quale delle due funzioni meglio hic et nunc lo dicono i fatti, ma stavolta soprattutto le intenzioni, stante che le difficoltà e le contraddizioni sul campo, anche gravi, non possono essere strumentalmente utilizzate per sconfessare un intero indirizzo politico se non con danni incalcolabili.
Come ha bene osservato un paio di anni fa l’opinionista neocon Charles Krauthammer, infatti, perché non dovrebbe essere considerata “realista” una politica che mira a vincere un confronto diretto e non solo, se va bene, a non perderlo o a limitare le perdite? La presidenza di Ronald W. Reagan segnò il punto di svolta nodale della politica estera staunitense allorché dall’immobilismo “realista” dei Kissinger passò al realismo decisionista di quelli che anche da noi si è imparato a chiamare neoconservatori.