La lunga battaglia di Maranini contro la partitocrazia (e a favore delle primarie)

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La lunga battaglia di Maranini contro la partitocrazia (e a favore delle primarie)

22 Febbraio 2009

Giuseppe Maranini, giurista e storico, è stato il più tenace critico della partitocrazia. Al momento della sua scomparsa, sopravvenuta nel 1969, l’Unità in un breve necrologio ricordava con sufficienza che, "nel quadro dell’intoccabile stato borghese e di classe", Maranini aveva denunciato una presunta "involuzione partitocratica", chiedendo "la regolamentazione giuridica dei partiti". Quasi quarant’anni dopo, il Partito democratico, nato dallo ceneri del Pci, per selezionare il suo primo segretario avrebbe scelto proprio il sistema che Maranini riteneva idoneo a contenere lo strapotere delle segreterie e degli apparati partitici, le primarie. Rivisitare la personalità di Maranini, però, non consente solo di registrare qualche piccola ironia della storia, ma permette anche di ripercorrere da un’angolazione non consueta la vicenda politica e culturale dell’Italia del novecento. Se l’opera di Maranini è ben nota ai cultori di studi storico-politici, se le sue prese di posizione contro l’invadenza dei partiti hanno conosciuto una notevole (ma spesso superficiale) risonanza negli ultimi quindici anni, tuttavia fino ad oggi mancava un lavoro che presentasse la sua opera di studioso e di appassionato esegeta della istituzioni in un quadro d’insieme. Questa lacuna, come si suol dire, è stata colmata da una recente monografia che ricostruisce in modo puntuale la parabola intellettuale e l’impegno politico e civile maraniniano (E. Capozzi, Il sogno di una Costituzione. Giuseppe Maranini e l’Italia del Novecento, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 443, € 32,80).

Maranini comincia le sue campagne contro la partitocrazia nel dopoguerra. A suo avviso, il neonato regime repubblicano rischiava di essere travolto dalla debolezza delle istituzioni formali rispetto alle istituzioni di fatto (sindacati, partiti). Per questo andavano rafforzati gli istituti di garanzia da porre a presidio della costituzione. Maranini non dava un giudizio liquidatorio del lavoro dei costituenti. Il loro edificio, per quanto implicitamente dualistico, in molte parti era solido e ricco di pregi, dalla presenza di una Corte costituzionale, al pieno riconoscimento dell’indipendenza della magistratura. Ma accanto ai poteri di garanzia occorreva rafforzare anche il prestigio delle istituzioni, garantendone una piena autonomia rispetto ai partiti. Questi, ignorati dall’ordinamento, configuravano un potere irresponsabile e, quando non infrenato da regole precise, tendenzialmente pericoloso.

Se, lungo l’arco ventennale della sua attività pubblicistica in età repubblicana, la sua posizione è coerente, essa non è però monocorde. Volta a volta Maranini individua, infatti, gli argomenti sui quali condurre campagne di opinione e azioni di lobby promozionale: la regolamentazione giuridica dei partiti, la necessità di far emergere un profilo coerentemente parlamentare della forma di governo, ovvero quella di rafforzare i poteri impliciti del presidente, la riforma del sistema elettorale in senso uninominale maggioritario, per innescare una dinamica di competizione aperta nel sistema politico. Tali oscillazioni sono seguite con cura da Capozzi che ricostruisce passo dopo passo le diverse campagne giornalistiche e culturali di Maranini nelle varie stagioni politiche, dal centrismo al centro-sinistra.

La parte dedicata al dopoguerra è quella che maggiormente colpisce e attrae il lettore, perché emergono con anticipo i temi delle discussioni sulla riforma costituzionale che hanno accompagnato gli ultimi quindici anni. Pure, dal punto di vista storico-biografico i capitoli più interessanti sono quelli dedicati a ricostruire la giovinezza e la formazione intellettuale e politica di Maranini. Nato in una famiglia irredentista trentina trasferitasi a Bologna, il giovane Maranini crebbe in un’atmosfera di sentito patriottismo. Il fascismo incontrò il suo favore perché pareva corrispondere all’esigenza del riscatto nazionale, tanto sotto il profilo dei confini naturali della patria che sotto quello dell’inserimento delle masse nella compagine dello stato. Ma egli rimase sempre un fascista atipico, poco sensibile alla retorica del regime. Verso la fine degli anni trenta, anche in coincidenza le leggi razziali, Maranini si distacca dal fascismo, approdando, negli anni successivi, a una piena rivalutazione del costituzionalismo. In questo percorso essenziale è la rimeditazione dell’opera di Gaetano Mosca, letta in chiave di elitismo democratico. In sostanza la parabola di Maranini è speculare a quella di tanti fascisti che si convertirono al comunismo, nella continuità del mito rivoluzionario. In lui, invece, la sensibilità nazionalistica si apre man mano a un apprezzamento dei valori di libertà.

Nel raccomandare la lettura di questo grosso tomo che appassiona come un romanzo, chiudiamo queste note con una piccola chiosa di attualità. Maranini fu uno strenuo difensore dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. La divisione dei poteri, articolata in un coerente edificio di garanzie, era per lui uno dei pilastri di un ben regolato organismo costituzionale. Al tempo stesso, però, aveva un forte senso dello stato, come garante necessario della vita pubblica libera. Viene chiedersi, cosa avrebbe detto di fronte allo scomposto agitarsi di tanti pubblici ministeri, tesi a trasformare le procure in centrali di iniziativa politica? Una risposta sicura non la possiamo dare, ma molto probabilmente l’avrebbe giudicato un sicuro sintomo d’imbarbarimento delle istituzioni.