La maggior parte delle tutele del lavoro delle donne risale ancora agli anni ’30
06 Luglio 2009
Nelle prossime settimane sarà possibile capire – almeno ce lo auguriamo – se il Governo vorrà dare esecuzione alla sentenza del 13 novembre dell’Alta Corte di Giustizia dell’Unione europea riguardante l’equiparazione dell’età di vecchiaia tra lavoratori e lavoratrici nel pubblico impiego.
Le soluzioni sono state individuate da tempo. Si tratta di elevare gradualmente (un anno ogni due oppure ogni 18 mesi) gli attuali 60 anni per arrivare a 65, salvaguardando le previgenti regole per le donne che sono rimaste a lavorare anche dopo il compimento del sessantesimo anno e riversando i risparmi ottenuti al finanziamento di politiche volte a migliorare il lavoro e la condizione della donna in un’ottica attenta ai problemi della conciliazione tra attività lavorativa e vita familiare.
In sé, la misura – rigidamente limitata al pubblico impiego – non comporterebbe risultati economici di particolare consistenza (diverso sarebbe il caso di un provvedimento che coinvolgesse anche le lavoratrici del settore privato). E non comporterebbe neppure dei costi sociali di particolare rilievo, dal momento che nessun dipendente pubblico rischia di perdere il posto di lavoro. Avrebbe tuttavia un grande valore emblematico e culturale (come emerge dal dibattito in corso) perché metterebbe in discussione uno dei luoghi comuni più consolidati ed equivoci: considerare l’anticipo dell’età della pensione per la donna come una sorta di "risarcimento" per uno stile di vita che penalizza, appunto, la lavoratrice, costretta ad adempiere ad un duplice ruolo in famiglia e nel lavoro.
In realtà, il pensionamento anticipato è l’ultima raffica di un idolum tribus che considera come principale vocazione della donna quella di essere, prima di tutto e nell’ordine, moglie, madre, figlia (dei genitori e degli suoceri vecchi ed invalidi). La sua attività professionale soddisfa l’esigenza di "dare una mano" ad implementare il reddito della famiglia; la medesima funzione può essere svolta da una modesta pensione riscossa prima possibile per poter ritornare alle cure domestiche. Che la condizione della donna, in Italia, sia complicata è assolutamente evidente. Fino a 40 anni ha problemi con i figli piccoli. Dieci anni dopo – quando i figli sono ancora giovani e bisognosi di una presenza assidua – comincia ad avere problemi con i genitori anziani. Sulla carta, anche il compagno potrebbe usufruire delle norme di tutela della paternità (al pari della maternità), ma nella realtà si frappongono ostacoli di carattere culturale, attinenti ai rapporti interpersonali, lontani dall’essere risolti. Questa situazione – di sostanziale stallo sociale – deve essere superata perché lo sblocco dell’occupazione femminile (i passi in avanti compiuti negli ultimi anni sono importanti ma insufficienti) è la condizione indispensabile perché, al momento della ripresa economica, l’offerta di lavoro sia adeguata rispetto alla domanda.
Per aprire le porte del mercato del lavoro alle donne deve cambiare l’organizzazione del lavoro e dei servizi ma devono anche essere fatti fino in fondo i conti con un vecchio modello di tutele della donna lavoratrice ormai divenuto non solo inadeguato per quanto riguarda le effettive esigenze femminili, ma che si erge ormai come un vero e proprio impedimento all’assunzione delle donne, anche perché la politica e i sindacati, in tutti questi anni, hanno aggiunto nuove forme di protezione senza superare quelle vecchie e tradizionali. A volte servirebbe andare alle radici degli istituti giuridici per comprenderne le ragioni e le motivazioni.
La maggior parte delle norme poste a tutela del lavoro delle donne datano dagli anni ’30 del secolo scorso, in pieno regime corporativo. Pochi sanno che il regime fascista accompagnò l’introduzione di norme a protezione della maternità e del c.d. puerperio e della famiglia stessa, con scelte di politiche del lavoro in esplicito contrasto dell’occupazione femminile (almeno fino al 1943 quando fu costretto a promuovere l’assunzione delle donne al posto degli uomini impiegati in guerra). Oltre alla tassa sul celibato, ai premi di nuzialità agli statali, ai prestiti alle giovani coppie e alle agevolazioni fiscali alle famiglie numerose, la Cassa per gli assegni familiari, estesa nel 1936 a tutti i lavoratori dell’industria, il regime riconobbe il diritto all’astensione dal lavoro prima e dopo il parto. La legge organica per la tutela del lavoro femminile è del 1934. In quegli stessi anni, per contrastare la disoccupazione indotta dalla "grande crisi", il fascismo adottò una vera e propria politica discriminatoria verso le donne, che furono espulse dai posti di lavoro (l’occupazione femminile passò dal 28% nel 1920 – nell’immediato dopoguerra – al 18% nel 1931) e spinte verso il lavoro a domicilio. Furono posti limiti alle assunzioni delle donne nella pubblica amministrazione e previste esclusioni da taluni pubblici uffici. Nelle aziende private fu fissato un tetto massimo per il personale femminile. Dapprima in misura del 20% nel commercio e del 16% nel credito e nelle assicurazioni. Nel 1938 una legge fissò il tetto al 10% tanto nel settore pubblico quanto in quello privato.
Il tutto era accompagnato da una politica di ruralizzazione con leggi limitative delle migrazioni interne e con agevolazioni per la vita in campagna.