La malattia senile del cattolicesimo politico

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La malattia senile del cattolicesimo politico

30 Gennaio 2008

Giovedì
24 gennaio 2008 tutti i nodi del “prodismo” sono venuti al pettine. Potremmo
scrivere che il secondo governo Prodi sia caduto a causa di una congiura ordita
dalla magistratura, oppure dalla decisione dei poteri forti di non appoggiare
più quel governo ovvero avremmo ragione di affermare che l’ennesima crisi sia
dovuta al reiterato trasformismo di qualche senatore. Tutto vero: la
magistratura ha tirato un evidente colpo basso al partito-famiglia-clan di Mastella,
Lamberto Dini è noto da sempre che oltre se stesso e sua moglie rappresenta
qualche significativo potere forte ed infine è indubbio che il trasformismo costituisce
una malattia congenita della giovane e malconcia democrazia italiana; non è un
caso che di simile malattia si sono giovati ed hanno patito alternativamente il
centro sinistra ed il centro destra. Questa volta ne ha fatto le spese il
centro sinistra in passato era toccato al centro destra.

Dunque,
le ragioni della crisi sono molteplici e tutte perfettamente calzanti, ad ogni
modo rappresentano l’epifenomeno di una ragione ben più profonda, le cui radici
sono rintracciabili nella filosofia politica stessa del “prodismo”; una visione
politica le cui radici si intrecciano con il faticoso avvento della modernità, ovvero,
con una sua possibile interpretazione che ha attraversato e condizionato la
storia repubblicana e che negli ultimi quindici anni ha conosciuto il concreto
e legittimo tentativo di essere inverata.

Per
carità di patria, con ciò non s’intende minimamente sostenere che le ragioni
che oggi manifestano la crisi siano l’esito intenzionale o riflesso della suddetta
filosofia! Sappiamo bene che l’interpretazione dei fenomeni sociali – in breve,
fare storia – non può sfuggire dalla constatazione che istituzioni e fenomeni
sociali il più delle volte sono l’esito non intenzionale – irriflesso – di
azioni umane intenzionali: in definitiva, si tratta di ciò che filosofi e
scienziati sociali chiamano “eterogenesi dei fini” o teoria delle unintended consequences.

Ebbene,
il “prodismo” ha voluto rappresentare la forma aggiornata e a tratti sfigurata di
quell’idea della modernità e del problema politico dei cattolici che considera
il secolarismo e la progressiva scristianizzazione esiti necessari della
vicenda storica occidentale. L’assunto teorico dal quale prende forma tale
congettura è che la modernità rappresenta il luogo nel quale i cattolici
sperimentano la possibilità di liberarsi una volta per tutte dalle scorie
dell’“antico regime” e di congiungersi con le anime culturali più avanzate,
quelle che esprimono la dinamica dell’ineluttabile “progresso”, per essere
definitivamente traghettate sulla sponda della modernità, la “città ideale”
dove finalmente ai cattolici è riconosciuta la piena e legittima cittadinanza
democratica.

Una
tale filosofia politica, prima di intercettare in Prodi il suo possibile
epigono, ha conosciuto alcune tappe fondamentali. In epoca recente, come ebbi
modo di scrivere su questo giornale in un precedente articolo sull’interpretazione
del Concilio Vaticano II elaborata dalla cosiddetta “Officina bolognese”,
guidata dal compianto professor Alberigo, tra la fine degli anni Cinquanta e i
primi anni Sessanta, soprattutto presso i teologi che con le loro opere prepararono
i lavori del Concilio, si andava diffondendo la convinzione che la filosofia
del futuro dovesse essere necessariamente una “filosofia dell’uomo” che
conciliasse l’esistenzialismo ateo con quello religioso. Era altrettanto forte
la convinzione che, in virtù di tale conciliazione, il secondo avrebbe avuto la
meglio sul primo. Ad ogni modo, accanto a ragioni di ordine politico e sociale,
sono in molti a riconoscere che motivi di carattere intellettuale furono alla
base della crisi post-conciliare, ed in particolare, del cedimento
dell’esistenzialismo religioso nei confronti di quello ateo e del confluire di
quest’ultimo nel marxismo. In seguito a questa evoluzione dell’esistenzialismo,
i cosiddetti “progressisti”, affinché potessero dialogare con la modernità, si
videro costretti a notevoli cedimenti nei confronti del marxismo.

La
crisi della Democrazia Cristiana ed il suo successivo scioglimento all’inizio
degli anni Novanta sembrarono spianare la strada verso ciò che appariva alla
mente di illustri intellettuali cattolici e non come l’esito inevitabile del
problema politico dei cattolici in Italia. A questo punto, una parte della
classe dirigente del Partito Popolare Italiano, considerando la vittoria
congressuale di Rocco
Buttiglione alla segreteria del partito un incidente di
percorso ed una perversione rispetto all’ineluttabile destino dei cattolici in
politica, individuò in Prodi colui che, in chiave tecnocratica e
post-ideologica, avrebbe potuto realizzare il traghettamento dei
post-democristiani verso i post-comunisti e la conciliazione dei primi con la democrazia. La DC
aveva esaurito il suo compito storico, quello di convertire i cattolici alla
democrazia, non le restava altro che suicidarsi. Oggi il “prodismo” è in crisi
e con esso appaiono tramontate le ragioni che avrebbero dovuto legittimare
questa interpretazione della modernità e dello stesso ruolo della DC.

Al
“prodismo” – un “dossettismo” aggiornato e sfigurato in chiave tecnocratica (si
consideri l’intervista di
Angelo Rovati a Lucia Annunziata e il riferimento alle nomine
degli enti pubblici) – da sempre si è contrapposta l’idea “leoniana”,
“sturziana” e “degasperiana” di democrazia cristiana. Secondo questa
interpretazione, il partito, piuttosto che vestire gli abiti di Caronte,
avrebbe il compito di veicolare il concetto che la democrazia – e con essa la
modernità – perché si preservi e prosperi è opportuno che incontri il messaggio
e la testimonianza cristiana. È questa la risposta al problema politico dei
cattolici, un problema che la fine del “prodismo” e la nascita del PD
consentono di ripensare in chiave sturziana e degasperiana.