La mano dell’Isi in India e Afghanistan. 007 pakistani nel mirino della Cia
01 Agosto 2008
Al delicato quadro della guerra al terrorismo islamista, segnato dalla crescente avanzata in Afghanistan e Pakistan delle milizie talebane e di al-Qaeda, si aggiunge ora un nuovo capitolo: lo scoppio della ‘jihad indiana’. La misura ora è veramente colma, e Washington si è decisa finalmente a presentare il conto a Islamabad. Mercoledì scorso, il New York Times ha rivelato i particolari di una missione che Stephen Kappes, vice direttore della Cia, ha compiuto segretamente nel mese di luglio in Pakistan. In questa occasione, Kappes avrebbe mostrato alle autorità locali le prove dei legami esistenti tra l’Inter-Services Intelligence (Isi, i servizi segreti pakistani) e i militanti fondamentalisti che spadroneggiano nelle aree tribali del Paese (Federally Administered Tribal Areas, Fata) e nella North-Western Frontier Province (Nwpf).
Gli Stati Uniti accusano l’Isi di sostenere l’insorgenza talebana in Afghanistan attraverso il network di Maulavi Jalaluddin Haqqani, leader islamista afghano le cui milizie operano anche nell’area tribale pakistana del Nord Waziristan. Haqqani è uno storico capo mujaheddin e durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan è stato uno dei contatti della Cia. Ora è molto vicino ad al-Qaeda, a cui avrebbe fornito le necessarie coperture per stabilire rifugi sicuri in territorio pakistano.
Dietro l’attentato suicida all’ambasciata indiana a Kabul di inizio luglio si celerebbe proprio la joint-venture tra il comandante talebano e il network fondamentalista di Osama bin Laden. Gli 007 Usa non sarebbero però in grado di dire se i contatti tra l’Isi e il gruppo di Haqqani siano gestiti con il placet dei più alti livelli dell’intelligence e delle forze armate pakistane, oppure da schegge impazzite degli apparati di sicurezza locali.
E’ da tempo ormai che l’Isi è guardata con sospetto dagli Stati Uniti, specie per la sua vasta rete di relazioni regionali, che la rende un attore primario negli equilibri geopolitici dell’Asia sud-occidentale: una vera e propria ‘spectre’ del radicalismo islamista. Fino alla recente missione di Kappes, l’amministrazione Bush e
I rapporti tra gli 007 americani e quelli pakistani sono tuttora caratterizzati da una certa ambivalenza: a un reciproco sospetto di base, infatti, fa da contraltare una stretta interdipendenza nello scambio di informazioni a livello regionale. Guardando al passato, poi, non si può dimenticare che negli anni Ottanta i servizi segreti pakistani erano l’anello di congiunzione tra gli Usa e i mujaheddin afghani impegnati a combattere i sovietici. I legami tra Isi e militanti islamisti si sarebbero forgiati esattamente in quel periodo.
Il premier pakistano Yusuf Raza Gilani, in questi giorni in visita negli Usa, ha rigettato ogni accusa di complicità dell’Isi con le milizie talebane: “Non lo avremmo mai permesso”, è stato il suo lapidario commento. Difficile crederci. A quasi sei mesi dal suo insediamento, il governo guidato da Gilani sta ancora lottando per affermare la propria autorità sull’Isi. Proprio la settimana scorsa, gli alti ranghi delle forze armate e dell’intelligence di Islamabad hanno sabotato un progetto dell’esecutivo con il quale si voleva attribuire alle autorità civili un maggiore potere di controllo sulle attività degli 007 pakistani.
Washington teme che la debolezza dell’attuale governo pakistano porti all’inevitabile rafforzamento dell’Isi, che acquisirebbe così una importanza persino superiore a quella goduta quando l’indiscusso dominus della scena politica nazionale era Pervez Musharraf. La notizia di un pesante scontro a fuoco tra esercito pakistano e talebani locali nella Valle della Swat – la regione appartenente alla Nwpf, coperta da un accordo di pace tra il governo di Islamabad e gli insorti islamisti – non cancella i dubbi degli Stati Uniti, avvezzi da tempo alle operazioni di facciata delle autorità di Islamabad.
Secondo diversi osservatori, l’Isi sarebbe impegnata in una sottile e complessa strategia per ridurre il pericolo islamista in Pakistan. Agli occhi dei servizi pakistani, l’unico modo per guadagnare la pace interna e salvare il Paese dai pericoli di una sanguinosa guerra civile è quello di stornare le pressioni delle milizie fondamentaliste locali verso l’esterno: in Afghanistan e India. La rete di contatti degli 007 di Islamabad nelle Fata servirebbe proprio per destabilizzare il quadro regionale a fini interni: il terrorismo islamista elevato dunque a strumento dell’interesse nazionale pakistano.
In questo senso andrebbe interpretato il recente tentativo degli apparati di sicurezza pakistani – e sauditi – di creare una sorta di gruppo talebano pro-governativo alternativo al network di Baitullah Mehsud (Tehrik-i-Taliban). Mehsud è strettamente legato ad al-Qaeda e rappresenta una grossa spina nel fianco per le autorità di Islamabad, in quanto agisce quasi esclusivamente all’interno dei confini nazionali. Il piano per eliminarlo, però, è fallito miseramente lo scorso 18 luglio, quando le sue milizie hanno annientato nell’area tribale di Mohmand quelle di Shah Khalid, il leader tribale alleato del governo pakistano. Khalid era stato scelto dall’Isi proprio perché al contrario di Mehsud aveva sempre combattuto contro le truppe americane e della Nato in Afghanistan, non rivolgendo mai la propria attenzione al Pakistan.
Anche quanto accaduto la scorsa settimana in India si inserirebbe in questo quadro complicato. Gli attentati a Bangalore e Ahmedabad sarebbero stati compiuti in concreto da manovalanza locale, ma per le autorità di sicurezza indiane dietro a entrambi ci sarebbe la mano pakistana. L’Isi, infatti, avrebbe scatenato una guerra ‘by proxies’ in India, avvalendosi della branca locale del gruppo Harkat-ul-Jihad-al-Islami (HuJI, in origine fondato in Bangladesh), formata esclusivamente da musulmani indiani di ispirazione wahhabita. Il gruppo radicale Students Islamic Movement of India e quello fantomatico degli Indian Mujaheddin – che ha rivendicato gli ultimi attacchi – non sarebbero altro che coperture per le azioni del HuJI.