La manovra di Monti fa piangere per una ragione: non pensa alla crescita
05 Dicembre 2011
Il decreto "Salva – Italia" di Monti ha preso forma. Varrà 30 miliardi di euro (10 in più di quanto preventivamente annunciato) e conterrà misure draconiane sia dal lato delle entrate che da quello delle spese. Avrebbe dovuto essere un intervento in grado di garantire sia maggior rigore nella tenuta dei conti pubblici, sia un maggiore sostegno alla crescita. Ma scorrendo l’elenco delle misure, sembra scontato che l’obiettivo della crescita è quasi del tutto tralasciato per far spazio all’esigenza di fare cassa.
Versante entrate. Verrà reintrodotta l’ICI, la tassa più odiata dagli italiani, e verranno rivisti al rialzo gli estimi catastali. La nuova tassazione sulla casa dovrebbe valere circa 7-8 miliardi di euro. Verrà tassato il lusso, barche in testa. Sono certamente due interventi spiacevoli, soprattutto il ritorno dell’ICI. Potrebbero anche starci, in questo momento di crisi finanziaria senza precedenti. Il vero problema, però, è che non avviene nessuna rimodulazione della tassazione, dal lavoro alle cose, ma semplicemente un aumento di tasse, in un periodo, recessivo, dove le tasse, invece, andrebbero tagliate.
L’esatto opposto di quello che fa questo decreto. Un recente documento della Commissione Europea sconsiglia, a quei paesi che partono già da un elevato livello di pressione fiscale, di effettuare il consolidamento dei conti pubblici dal lato delle entrate, optando, invece, per uno dal lato delle spese. Stando all’ultima Nota di Aggiornamento dal DEF 2011, la pressione fiscale, in Italia, è prevista al 43,8% nel 2012, un livello elevatissimo. Per questo motivo introdurre ulteriori tasse non può che avere ulteriori effetti detrimenti sul PIL.
Insegnava Laffer, economista del presidente Reagan, che oltre una certa soglia di prelievo gli effetti distorsivi delle tasse sono talmente elevati che il gettito diminuisce, anziché aumentare. Perché, quando le aliquote sul lavoro sono troppo alte, la gente trova più conveniente starsene a casa che non andare a lavorare. Perché, quando la tassazione sulle imprese è troppo elevata, gli imprenditori restituiscono le chiavi delle loro imprese e preferiscono trovarsi un lavoro sicuro.
Sarebbe stato condivisibile un piano di intervento che si limitasse ad aumentare la tassazione sul patrimonio e sul consumo in cambio di una equivalente riduzione del prelievo sull’Irpef, la tassa che più è in grado di condizionare la crescita economica. Questo non verrà fatto. E gli effetti sulla crescita saranno quasi sicuramente negativi. Versante spese. Verranno nuovamente ritoccate le pensioni. Se il passaggio definitivo dal sistema retributivo a quello contributivo è apprezzabile, in quanto il sistema attuale è discriminante nei confronti di alcune generazioni di lavoratori, dubbi emergono relativamente alla sostenibilità dell’ulteriore innalzamento dell’età pensionabile, portando la soglia di anzianità a 41 o 42 anni a partire dal 2012.
Da questo punto di vista, sorgono spontanee alcune domande: fino a quanto potremo spostare in avanti la soglia di età lavorativa? E’ davvero sostenibile un sistema di welfare dove le persone andranno a lavorare oltre i sessant’anni e, forse, oltre i settanta? Versare i contributi pensionistici ininterrottamente per 42 anni, senza pensare che ci possano essere situazioni personali o di lavoro che non permettano ai lavoratori di versarli per alcuni anni, è davvero realistico? E’ ragionevole pensare che le aziende possano tenere un lavoratore fino alla soglia dei settanta anni, quando, soprattutto per i lavori più manuali, la produttività comincia a scendere significativamente dopo i quaranta – cinquanta anni?
Ancora, quali misure di sostegno saranno previste per i lavoratori a più bassa qualificazione che vengono espulsi dal lavoro e non hanno versato contributi sufficienti per garantirsi una pensione? Questi effetti negativi sono direttamente proporzionali all’età pensionabile scelta. All’aumentare di questa, tutti questi problemi si esacerbano. E nessuno è in grado di predire come sarà l’evoluzione del mercato del lavoro nei prossimi decenni. Per tutti questi motivi, è bene pensare molto attentamente, prima di sostenere una riforma di questo tipo. Anche perché, il consolidamento dal lato della spesa sembra avvenire soprattutto per via della riforma delle pensioni.
Si parla poco, invece, delle riforme liberali a costo zero, come le liberalizzazioni e le privatizzazioni, che (quelle sì) avrebbero un impatto positivo immediato sulla crescita. Abbattimento delle barriere d’accesso alle professioni, liberalizzazioni dei servizi, dismissione e valorizzazione del patrimonio immobiliare. Misure che colpirebbero direttamente le posizioni di rendita, che l’economia liberista considera come le più malefiche per lo sviluppo economico di un paese. L’agenda delle riforme di Monti dovrebbe, quindi, partire da queste considerazioni. Bisogna essere coscienti che solo diminuendo le tasse e abolendo queste posizioni si può trovare il giusto fine-tuning rigore e crescita.