La marina USA è la migliore al mondo, ma con i pirati la forza non basterà

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La marina USA è la migliore al mondo, ma con i pirati la forza non basterà

18 Aprile 2009

Lo spettacolare salvataggio del Capitano Richard Philiphs è stato il lieto fine di un incidente da molti considerato il maggiore assalto ad un’imbarcazione commerciale statunitense degli ultimi due secoli. L’ultima volta che i predatori del mare hanno agito in modo tanto ardito, Thomas Jefferson e James Madison hanno incaricato i Corpi nascenti della Marina militare americana di affrontare quei pirati nei loro paradisi lungo le “coste di Tripoli”. L’incidente di questo mese evidenzia cosa sia in grado di ottenere, sotto le giuste condizioni, l’esercito che vanta il miglior addestramento al mondo. Ma sottolinea, al tempo stesso, i limiti di quella forza di fronte ad una sfida così difficile da affrontare come quella posta dai pirati somali.

Secondo l’International Maritime Bureau, su 293 incidenti di pirateria o di rapina armata registrati nel 2008, 111 sono avvenuti a largo della costa somala – il doppio rispetto all’anno precedente. E le previsioni per il 2009 non sembrano promettere nulla di buono già dall’inizio. Nonostante le cattive condizioni meteorologiche – di certo non favorevoli a incursioni marittime – quest’anno fino ad ora si sono già verificati oltre una dozzina di sequestri.

I pirati non stanno avendo semplicemente fortuna. In realtà, la pirateria somala si discosta largamente dall’immagine disordinata che ne riportano spesso i media; la loro piuttosto è una vera e propria impresa ben strutturata, costruita attorno ad un ampio numero di gruppi. I pirati con base a Eyl, nella regione nordorientale di Puntland, e a Xarardheere, nella Somalia centrale, si distinguono per la loro audacia e per le risorse che controllano. I gruppi gestiscono “le navi-madre” al largo della costa, che fungono da piattaforme a lungo raggio per i motoscafi che attaccano le imbarcazioni commerciali; inoltre dispongono di depositi lungo la costa dove i pirati possono rifornirsi prima di portare le navi catturate alle loro basi principali; infine si occupano del coordinamento dei network per sostenere le operazioni dei pirati su terra. In un report presentato il mese scorso al Consiglio di Sicurezza ONU dal Segretario Generale Ban Ki-Moon, si riconosce mestamente che “questi gruppi ora si oppongono alle autorità costituite somale in termini di capacità militari e risorse a disposizione”.

I pirati somali non sono solamente ben organizzati, ma hanno anche dato prova di saper rispondere adeguatamente ai cambiamenti in ambiente strategico. Come avevo già avvertito in una mia analisi di due settimane fa, i pirati non si sono lasciati intimidire dalla forza navale internazionale riunita per prevenire il ripetersi di dirottamenti come quelli dello scorso anno. Al contrario, hanno spostato le loro operazioni su aree meno pattugliate, con obiettivi collocati sempre più lontano dalla costa, in alto mare nell’Oceano Indiano occidentale. Il tentativo di sequestro del Maersk Alabama, ad esempio, è avvenuto più o meno a 240 miglia nautiche a sud-est della costa somala. Le navi-madre, che assomigliano a navi da pesca, si sono anche impegnate strenuamente per confondere le pattuglie anti-pirata, evitando tutte insieme di avvicinarsi alla costa somala, preferendo piuttosto attraccare in porti di altri paesi per il rifornimento di carburante ed altro (il report ONU ha identificato Al Mukalla e Al Shishr in Yemen).

Storicamente, la pirateria ha rappresentato un crimine legato all’opportunità, ed esistono pochi posti al mondo con condizioni più favorevoli di quelle offerte dalla mancanza de facto di uno stato, condizione che affligge la Somalia ormai dal 1991, anno del crollo dell’ultimo governo effettivo del paese. In questo stato hobbesiano, sembra che ogni sorta di individuo abbia un proprio interesse nell’economia politica della pirateria. In cambio di una parte degli eventuali riscatti, i ricchi uomini d’affari della Somalia finanziano l’acquisto e l’equipaggiamento delle navi-madre e delle barchette, così come la fornitura d’armi e il reclutamento di loro equipaggi. In diversi porti, informatori ben pagati inviano notizie sui mezzi di difesa delle imbarcazioni, ai loro equipaggi, oltre ai carichi e agli itinerari, permettendo così alle bande dei pirati di selezionare i loro obiettivi e pianificare una rotta per intercettare il bersaglio. Il Maersk Alabama, ad esempio, ha lasciato Djibouti in rotta verso Mombasa, in Kenya, quattro giorni prima di essere dirottato; già solo quell’informazione avrebbe permesso ad un potenziale aggressore di restringere la ricerca, anche senza la necessità del sistema di identificazione automatica (AIS) a bordo, senza il radar e altre tecnologie.

Quando un’imbarcazione viene catturata e condotta alla base pirata, hanno inizio le trattative tra i corsari e i rappresentanti del proprietario della nave e del suo assicuratore. Alla fine, il riscatto, che ad oggi generalmente ammonta a circa 1 milione di dollari – sebbene siano stati pagati 3.2 milioni di dollari per il rilascio del cargo di armi ucraine Faina e 3 milioni di dollari per quello della superpetroliera saudita Sirius Star all’inizio di quest’anno – deve essere lasciato direttamente sull’imbarcazione dirottata attraverso degli intermediari concordati, per lo più consiglieri di sicurezza specializzati.

Sebbene in tale processo siano coinvolte più persone – dai commercianti che riforniscono i pirati con carburante per iniziare il viaggio, alle prostitute che li intrattengono durante il ritorno – alcuni sono più sensibili di altri alle pressioni della comunità internazionale. Di sicuro, i finanziatori dei pirati nella diaspora somala possono essere sottoposti a procedimenti legali, ogni qual volta sia possibile trovare le prove del ruolo che hanno svolto. I proprietari e gli assicuratori delle navi hanno anche una porzione di responsabilità, dato che i loro pagamenti del riscatto stanno diventando ogni giorno di più un incentivo per un numero crescente di somali spinti ad intraprendere la carriera di pirata.

Tra gli altri profittatori che vanno inclusi tra i bersagli da colpire bisogna includere il governo locale di Puntland e al-Shabab, il gruppo di militanti islamisti collegato ad al Qaeda che lo scorso anno è stato formalmente definito come “organizzazione terrorista straniera” dal Dipartimento di Stato americano. Entrambe le entità ricevono una parte dei proventi in cambio del permesso accordato ai pirati di operare in aree sotto il loro controllo. Si tratta di un’occasione per imporre misure restrittive: si può potrebbe avanzare il fatto che il pagamento o il trattamento di un riscatto è proibito dai trattati internazionali (come la Convenzione ONU contro la Corruzione), dalla legislazione interna americana (come il Foreign Corrupt Practice Act), o da altre leggi che riguardano il sostegno finanziario e materiale al terrorismo.

E ancora, i somali dovranno migliorare le loro capacità. Dato che la pirateria gioca un ruolo economico fondamentale nelle comunità dove i predatori hanno base, un efficace attacco alla loro impresa richiede la creazione di capacità locali di politica e sicurezza, in modo tale da ridurre l’estensione delle aree “senza legge”, che i corsari hanno potuto sfruttare sino ad oggi. Una strategia del genere richiede di sviluppare una guardia costiera, magari inizialmente sotto l’Unione africana o auspici sub-regionali, che pattuglierebbero costantemente la regione lungo la costa. Col tempo, questa guardia costiera potrebbe acquisire i mezzi necessari a raccogliere ed esaminare informazioni utili ad abbattere tutti i network dei pirati. E anche nel caso in cui non riesca ad essere sofisticata a tal punto, una pattuglia costiera locale ha maggiori prospettive di sostenibilità rispetto alla massiccia e continua presenza di navi da guerra dei corpi di marina militare del mondo.

Senza dubbio, una decisa risposta militare come quella data domenica scorsa dalla marina americana a coloro che avevano catturato il Capitano Philips (e dalla marina francese lo scorso venerdì ai pirati che trattenevano lo yatch Tanit con a bordo i suoi passeggeri civili francesi) sarà nuovamente necessaria per gestire le azioni dei pirati in atto e per scongiurare altri potenziali dirottamenti in mare. Di certo, come ha sostenuto con convinzione Bjoern Seibert due settimane fa, i vari sforzi in campo navale devono essere meglio coordinati, se non integrati. Infine, tuttavia, la pirateria è ben più complessa di qualsiasi pattuglia navale; sarà necessario molto di più del semplice uso della forza per sradicare la pirateria dal territorio somalo. 

© Foreign Policy
Traduzione Benedetta Mangano