La miccia etnica brucia verso la polveriera kirghiza
06 Agosto 2010
I gravi scontri interetnici che hanno insanguinato il sud del Kirghizistan all’inizio di giugno hanno fatto rivivere alla popolazione locale un dramma di esattamente venti anni prima: come allora, la città di Osh è stata teatro di violentissimi incidenti tra kirghizi ed uzbeki. Il conflitto del giugno 1990 suscitò però scarsa attenzione nei media occidentali, all’epoca più interessati all’agonia dell’Urss e agli scontri politici moscoviti che a quelli militari alla periferia dell’impero. Per capire perché l’odio etnico sia riesploso con tale violenza in questa sperduta, ma strategica nazione dell’Asia ex sovietica, con un vero e proprio tentativo di “pulizia etnica” contro la minoranza uzbeka e il disastro umanitario che ne è scaturito, è importante tornare agli eventi di due decenni fa.
Lotta per la terra
Tutto iniziò nella seconda metà degli anni ottanta. La crisi dell’economia sovietica aveva spinto molti cittadini a lasciare le campagne e a cercare una vita migliore in città. Un fenomeno che si era manifestato con intensità anche in Kirghizistan, le cui città erano state oggetto di una massiccia migrazione dalle campagne. Ne erano derivati una serie di problemi di natura socio-economica. I centri urbani kirghizi non erano infatti in grado di garantire ai nuovi immigrati un’abitazione né un lavoro.
Per ovviare alla carenza abitativa, erano nate in Kirghizistan numerose imprese edili, che avevano iniziato a costruire caseggiati sui terreni agricoli abbandonati intorno alle grandi città. Una di queste imprese, nel maggio 1990, aveva ottenuto dalle autorità kirghize la concessione per costruire su alcuni appezzamenti di terreno alla periferia di Osh. Il problema era che tali terreni erano stati assegnati tempo prima al kolchoz “Lenin”, una cooperativa agricola composta da lavoratori in maggioranza uzbeki, che rifiutarono di cedere il terreno perché intenzionati a costruirvi abitazioni ad uso proprio.
Gruppi di nazionalisti kirghizi sfruttarono questo rifiuto come un casus belli, e per tutto il mese di maggio diedero vita ad una violenta propaganda anti-uzbeka, rivendicando il diritto del popolo kirghizo ad avere la priorità nell’uso della propria terra. In un crescendo di tensioni, il 4 giugno 1990 gruppi di senzatetto e di nazionalisti kirghizi occuparono i terreni della cooperativa Lenin. Ne scaturirono violentissimi scontri tra le due etnie, che ben presto si allargarono all’intera regione di Osh. Il 6 giugno, Mosca proclamò in tutto il Kirghizistan meridionale lo stato d’assedio, che il 7 giugno venne esteso anche alla capitale Frunze (l’odierna Bishkek).
Sull’orlo della guerra civile
Sulle montagne, intanto, si era costituito un esercito nazionalista clandestino, composto da 15mila volontari kirghizi, che a metà giugno iniziò a marciare verso l’Uzbekistan con l’obiettivo di penetrarvi e compiere una vera e propria spedizione punitiva. Solo l’intervento delle forze di sicurezza giunte da Mosca riuscì fermare e a disperdere i miliziani prima che superassero il confine tra le due repubbliche. Nel frattempo, anche in Uzbekistan era pronta a scendere in guerra un’armata clandestina composta da nazionalisti locali.
Vista l’impossibilità di riprendere il controllo del territorio solo con l’uso della forza, il Cremlino decise di adottare una strategia parallela improntata sulla trattativa: a fine giugno, quando si era ormai sull’orlo della guerra civile, Mosca giocò la carta dell’identità religiosa dei due popoli per promuovere la pacificazione. Incaricò quindi il muftì di Tashkent di mediare tra le parti in lotta. Fu una mossa decisiva: l’alto esponente religioso uzbeko riuscì a raggiungere una tregua facendo leva sulla comune appartenenza al credo islamico di kirghizi ed uzbeki. A inizio luglio il muftì celebrò in Kirghizistan un grande rito funebre pacificatorio in onore di tutte le vittime, senza distinzione di etnia o nazionalità. Dopo oltre un mese di incidenti, il “giugno di sangue” si concludeva con il tragico bilancio di oltre trecento morti (ma secondo fonti non ufficiali sarebbero state quasi il doppio), migliaia di feriti, e danni ingentissimi nelle zone al centro degli scontri.
La vera e propria “caccia all’uzbeko” scatenatasi a giugno 2010 perciò altro non è che un rigurgito di odi mai sopiti, che però nel corso degli ultimi vent’anni sono andati diluendosi in una miscela esplosiva nel grande calderone dei traffici illeciti di armi ed oppio. I grossi interessi economici in gioco fanno pensare che dietro la matrice razziale degli scontri ci sia anche un regolamento di conti tra clan kirghizi ed uzbeki, specie dopo che questi ultimi sono stati accusati di aver cospirato per la caduta del deposto presidente Kurmanbek Salievi Bakiev, che proprio nel Kirghizistan meridionale ha ancora oggi la sua roccaforte.
Fuoco sotto la cenere
Il 27 giugno scorso il Kirghizistan è diventato una repubblica parlamentare: con referendum confermativo, oltre il 90% dei kirghizi ha detto sì agli emendamenti alla Costituzione, proposti dal governo provvisorio entrato in carica dopo la caduta di Bakiev in aprile. Si è trattato di una legittimazione popolare che mancava all’esecutivo del nuovo presidente, Roza Otunbajeva, la pasionaria che ha guidato il “golpe bianco” contro Bakiev, promettendo una svolta politica basata sul rispetto della legge e dei diritti. Con il rafforzamento del ruolo del Parlamento, quale organo di espressione democratica delle varie etnie del paese, il nuovo potere kirghizo punta ora ad una rapida pacificazione tra le fazioni in lotta.
Tuttavia, l’adozione del sistema parlamentare rischia paradossalmente di ridurre l’autorità del governo che quel sistema ha fortemente voluto. In Kirghizistan i clan della droga rappresentano una sorta di contropotere allo Stato centrale: una situazione per certi versi simile all’Afghanistan, dove c’è un governo centrale che non riesce ad imporre la propria autorità su diverse aree nelle mani dei Taliban o di altri signori della droga.
Un Parlamento con più potere, ma con il rischio di essere bloccato dall’eccessiva frammentazione politica, e un esecutivo più debole potrebbero comportare un’ulteriore perdita di autorità dello Stato centrale in alcuni territori controllati dai clan. La Otunbajeva potrebbe così ritrovarsi nelle stesse condizioni del suo omologo Hamid Karzai, che molti media occidentali chiamano ormai con scherno “il sindaco di Kabul” perché non riesce a imporre la sua autorità molto al di là della capitale.
Strada in salita
Se la nuova presidente non vuol diventare una sorta di “sindaco di Bishkek” o tornare a un governo autoritario, dovrà cercare soprattutto di riportare sotto controllo le regioni meridionali, dove le forze di polizia sono spesso null’altro che truppe ausiliarie di qualche boss locale. Proprio per questo il governo kirghizo ha plaudito alla decisione dell’Osce di inviare una forza internazionale ausiliaria di sicurezza, che avrà il compito di assistere le forze dell’ordine nel ripristino della legalità nelle regioni meridionali sconvolte dagli scontri di giugno.
Una decisione mai come ora necessaria. L’organizzazione umanitaria Human Right Watch ha recentemente denunciato che nel sud del paese continuano ad essere commessi gravi abusi da parte della polizia e delle forze di sicurezza kirghize contro la minoranza uzbeka, ammonendo che il perpetuarsi di queste pratiche illegali rischia di far esplodere un vero e proprio conflitto etnico. Secondo Human Right Watch, l’indagine che il governo di Bishkek ha lanciato per punire i colpevoli degli scontri ad Osh e Jalalabad si sarebbe trasformato in una chiara persecuzione nei confronti di persone di etnia uzbeka, molte delle quali sarebbero state arrestate senza motivo e torturate. Sempre secondo l’organizzazione umanitaria, alcuni funzionari governativi avrebbero anonimamente ammesso che agenti kirghizi si sarebbero macchiati di abusi nei confronti degli uzbeki (una parziale ammissione di ciò è giunta anche da Farid Nijazov, portavoce del nuovo governo).
Così, nonostante la dichiarata volontà del governo di rispettare la legalità, per il nuovo potere kirghizo si è trattato sicuramente di un esordio non positivo. La strada della pace è ancora in salita.
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