La minaccia di chiudere i rubinetti del petrolio non è reale

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La minaccia di chiudere i rubinetti del petrolio non è reale

24 Febbraio 2011

Sono anni che ve la meno con l’equilibrio dei bisogni. Tranquilli che loro hanno bisogno di soldi per le pensioni quanto noi di gas e petrolio per scaldarci e muoverci. L’"arma del petrolio" e l’incubo della sicurezza energetica sono invenzione, e quasi complotto, di diplomazie e giornali. L’organo (ne) crea la funzione. A occhio, ve la dovrei rimenare uguale per il caso Libia. Chiude il Green Stream, e si blocca un flusso di oltre 20 milioni di mc di gas al giorno. Problemi?

In realtà il volume che viene meno rappresenta un pezzo dell’eccesso di offerta che si è abbattuto sul mercato per la meravigliosa concomitanza di una crisi che ha contratto i consumi italiani di gas naturale e del varo di nuove infrastrutture (rigassificatore di Rovigo, aumento della capacità dei gasdotti per l’importazione da Algeria, Russia e Libia) che ne hanno simultaneamente aumentato la disponibilità.

Era diventato un classico mercato della domanda. E adesso, di colpo, spariscono oltre 20 milioni di gas importato in regime di take or pay. Tra operatori si brinda. Dice vabbè, ma quando poi ci riaumentano i consumi? Con lo spettacolo che abbiamo dato con il leader che c’è (ancora), rischiamo che chi viene dopo ci cancelli dalla lista dei clienti.

E secondo voi chi viene dopo che fa? Gira il tubo? I gasdotti sono un’infrastruttura rigida. Con il Green Stream l’alternativa è trasportare gas in Italia o tenerlo vuoto (appunto). E ti pare che quello che viene dopo, chiunque sia, lo tiene vuoto? A piena capacità e a valori di oggi quel che passa in un anno per il tubo vale commercialmente tra i 2 e i 3 miliardi di euro. Richiamate quando trovate quello che ne fa a meno.

Ma col petrolio è diverso. L’infrastruttura è flessibile, basta che ci sia acqua di sotto e la nave te lo sposta dove vuoi. E grosso modo un quarto del petrolio nostro arriva da lì. Che si fa se invece che da noi lo mandano in Turchia? Semplice. Lo compriamo dai turchi. Nel 1973 i ragazzi dell’Opec embargarono americani e olandesi. E loro si misero a comprarlo da quelli non embargati.

“The world market, like the world ocean, is one great pool", come disse Adelman. Se il mondo produce meno, si contrae l’offerta; e può essere un guaio. Se si continua a produrre, che ognuno se lo venda poi a chi vuole, che la vita non cambia. Alla fine (magari con qualche inutile turbolenza di percorso e un qualche aggravio di costi) finirà sempre per (ri)distribuirsi tra chi ne ha domanda. Per la tua sicurezza energetica rivolgiti al tuo pil, e non alla tua diplomazia.

Dice sì, ma non dimentichiamoci che un pezzo del nostro sistema di raffinazione col libico dà il meglio di sè. Che non esiste “il” greggio. Esistono infinità di “greggi” diversi per gradi Api, acidità, contenuto paraffinico e quant’altro. Ogni raffineria (semplifico) è “tarata” su certe specifiche. E alcune nostre raffinerie con le caratteristiche del greggio libico (e in particolare con la produzione di Bu Attifel) ci vanno a nozze. E allora?

Questo non significa che se non arriva il libico si chiude; ma solo che toccherebbe nel caso cercare sul mercato greggi con caratteristiche che ci vadano vicino. Qualche difficoltà e qualche tensione magari sulla raffinazione; però se vi piacciono gli incubi rivolgetevi altrove.

Insomma se anche la nuova Libia ci si rivoltasse contro (ma perchè dovrebbe?) dovremmo riuscire a sfangarla. Il danno italico non sarebbe ipoteticamente la crisi dei nostri approvvigionamenti; ma giusto quella dell’Eni, che non può lasciare sul campo, magari con un sorriso, il proprio patrimonio libico. Ma anche questo, ipotizzando che la nuova Libia (che non c’è) gradisca qualche investimento estero, pare scenario più che remoto.

Sin qui la rimenata. Però stavolta non mi riesce di sbadigliare per la preoccupazione. Stavolta c’è (anche) altro. Tutto il Nord Africa in ebollizione. E un pezzo di Arabia Felix a seguire. Negli anni dei regimi che adesso vanno qua e là cadendo gli è cambiata la vita; e anche la sua qualità. Ho cominciato a viaggiare per petrolio che dal Cairo si “andava” alla piramidi. E adesso le piramidi sono “dentro” il Cairo. Algeri si è estesa ovunque. Le altre hanno seguito il modello.

Crescita demografica. E ancor più crescita urbana. E fine o quasi dell’agricoltura. E nessun inizio di altro lavoro. E non precisamente grandi modelli di attenzione sociale; che per qualcuno – e anzi tanti – la madrasa diventa l’unico luogo di assistenza e solidarietà, oltre che di istruzione.

Al satrapo è riuscito per decenni di tenere il coperchio sulla pentola, magari usando della rendita petrolifera come pannicello caldo servito in guisa di welfare. A noi, per decenni, è riuscito e benissimo di non vedere nemmeno la pentola, che sarebbe bastato usare gli occhi; e adesso vaghiamo tra sorpresa e preoccupazione (per noi stessi).

L’equilibrio dei bisogni col satrapo ha funzionato benissimo. Lui ha qualcosa da perdere. Può usare il petrolio per regalare il pane; che senza il suo potere e la sua stessa persona fisica vanno a rischio. La rendita petrolifera compra consenso o quantomeno sopisce il tumulto; e (di regola) contribuisce anche, e tanto, alle fortune del satrapo e del suo clan. Figurati se mai smette di vendere.

Chi verrà dopo non sappiamo. Ma sappiamo che dovrà dare rappresentanza politica alla disperazione araba nata dalle e nelle conurbazioni. Potrebbe, almeno transitoriamente, sentire di non avere niente da perdere. Che l’orgoglio e l’identità della nazione sono più importanti delle pensioni, che tanto e comunque la rendita da sola non ce la fa a pagarle.

È con questa disperazione, insieme colta e lucida, che ci toccherà di fare i conti. E, auspicabilmente, di cooperare. Possibilmente senza spocchia e buttando nel cestino lo scontro di civiltà. Siamo già stati abbastanza imbecilli da scavare fossetti e fossati per prevenire l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. E adesso, per ironia della storia, siamo quasi a pregare un esito “turco” del sommovimento del Nord Africa; che (molto) meglio l’ottomano dell’imam.

Attenti, adesso, a tendere l’orecchio a quello che si muove. E a non costruire valli in Mediterraneo. Se ci illudiamo di riuscire a chiudere la disperazione nel recinto del proprio paese, alimentiamo il disequilibrio. Dei bisogni.

(tratto da Limes online)