La morte di Al Libi è l’ennesima puntata della guerra (segreta?) di Obama
08 Giugno 2012
“Riteniamo la morte di Al Libi un enorme colpo al cuore per al Qaeda. La sua eliminazione rappresenta un’enorme sconfitta per l’organizzazione e, mai come ora, ne intravediamo la fine”. Così il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha voluto confermare la notizia della morte del numero due di al Qaeda, Al Libi, nel Waziristan settentrionale, regione tribale al confine con l’Afghanistan e roccaforte del terrorismo islamico.
Al Libi è stato ucciso lunedì 4 Giugno, assieme ad altri 14 militanti, da un drone, nonostante i numerosi accorgimenti di carattere tecnico-militare adottati dai qaedisti pakistani dopo l’uccisione di Bin Laden, nel Maggio del 2011. Libi era ritenuto uno dei massimi vertici di al Qaeda: comandante delle operazioni militari più importanti e uomo in grado di mantenere i contatti con gli affiliati in giro per il mondo, in particolare nello Yemen e in Africa, si trovava ai primissimi posti della famigerata ‘Kill List’ dell’amministrazione Obama, scoperchiata dalle recenti rivelazioni del settimanale statunitense Newsweek, e fonte di non pochi imbarazzi tra i liberal americani e d’oltreoceano. Libi, inoltre, balzò agli ‘onori’ della cronaca per due particolari avvenimenti che lo videro protagonista: nel 2005, evase dalla prigione americana di Bagram, in Afghanistan; nel Dicembre del 2009, invece, fu già dato per morto dalla Cia, a seguito di un attacco simile a quello di lunedì, sempre in Waziristan.
Secondo quanto riferito da un (anonimo) alto funzionario statunitense al Wall Street Journal del 5 Giugno scorso (‘Cia Kills Al Qaeda’s No. 2’), Al Libi era “uno dei leader di al Qaeda con maggior esperienza e versatilità, capace di giocare un ruolo fondamentale nella pianificazione degli attacchi contro l’Occidente”. Per tali motivi, agli occhi degli Usa, la morte del numero due di al Qaeda non può che rappresentare una grandissima vittoria sia sul piano strettamente militare, sia sotto l’aspetto politico.
In termini d’analisi geo-strategica, però, le opinioni degli studiosi al riguardo divergono. Da un lato, secondo Bruce Hoffman – specialista in anti-terrorismo dell’Università di Georgetown – “la perdita di Al Libi comporterà una sempre maggior distanza tra la leadership di al Qaeda in Pakistan e le succursali regionali”; anche per Seth Jones – esperto qaedista della Rand Corporation – “d’ora in avanti, con un centro nevralgico pakistano più debole, sarà sempre più difficile per al Qaeda organizzarsi a livello internazionale”.
Dall’altro lato, sono altri analisti a mostrarsi molto più cauti dei loro colleghi: “L’uccisione di Al Libi, evidentemente, fiacca la leadership di al Qaeda. Tuttavia, ciò non basterà a sconfiggerla”, è l’opinione di Bill Roggio, esperto di affari militari ed editorialista del Long War Journal, a sua volta ripreso da un report del New York Times di martedì 5 (‘Drone Strike Killed No. 2 In al Qaeda, U.S. Official Say’, a cura di Declan Walsh e Eric Schmitt). E ancora: “In molti si faranno avanti per colmare il vuoto lasciato dal numero due dell’organizzazione. Gli attacchi con i droni hanno offerto, e offrono tuttora, un’attraente tattica militare di breve periodo contro i militanti qaedisti. Ma nel lungo periodo – ha proseguito Roggio -, questa non può divenire una strategia anti-terrorista completa e vincente”.
Inoltre, sebbene con Islamabad vi sia oramai più d’un attrito (evidenti anche ai neofiti appaiono le violazioni di sovranità), i vertici istituzionali statunitensi insistono nel difendere strenuamente l’uso dei droni: “Stiamo combattendo una guerra contro i terroristi; contro chi ci ha attaccato l’11 Settembre 2001 uccidendo in un colpo solo 3000 nostri connazionali. Continueremo a difenderci”, ha dichiarato il segretario americano alla Difesa, Leon Panetta, durante un discorso pronunciato all’Institute for Defence Studies and Analyses, noto think-thank indiano.
A metà del 2012, quindi, in base ai dati forniti dalla New America Foundation, ammontano già a 22 i bombardamenti degli aerei senza pilota in Pakistan, mentre sarebbero già 12 i terroristi d’alto livello rimasti uccisi. A rimanere sul tappeto, poi, c’è l’eterna questione della base giuridica delle uccisioni mirate. Anche se, sotto tale aspetto, non v’è piattaforma che tenga per giustificare azioni di questo genere. Politicamente, infine, si tratta di un non proprio edificante biglietto da visita per il premio Nobel per la pace 2009 Barack Obama: non vorremmo mai essere nei panni di quei progressisti che, quattro anni fa, lo elessero a salvatore del pianeta.