La morte di un regime non equivale sempre alla nascita della democrazia

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La morte di un regime non equivale sempre alla nascita della democrazia

25 Ottobre 2011

Il drammatico epilogo della guerra civile che da otto mesi sta devastando la Libia, culminato con l’uccisione di Gheddafi, non solo apre tutta una serie di interrogativi su quale potrà essere il futuro delle “primavere arabe” ma soprattutto smonta alcuni dei luoghi comuni su cui si è fondata l’idea che con la fine dei regimi al potere anche in quei Paesi potesse aprirsi una fase di democrazia e libertà. Certo l’eliminazione dell’ex leader, che per oltre quarant’anni ha governato la Libia come un suo feudo personale, risponde a quel desiderio di risentimento che con la fine delle dittature porta la popolazione e gli insorti a sfogare la propria indignazione contro gli esponenti di un passato da cancellare. Ma è soprattutto il segnale di come il clima che si respira in Libia, ma anche in Tunisia ed Egitto, sia molto diverso da quanto si è voluto far credere finora.

E il primo punto riguarda proprio quale sarà il futuro politico di questi Paesi. In proposito va detto che le indicazioni non promettono nulla di positivo. A cominciare dalla Tunisia, dove le elezioni di domenica potrebbero vedere il successo di una formazione islamica – l’“Ennhada” di Rachid Ghannouchi – i cui legami con gli ambienti legati al salafismo suscitano più di una preoccupazione tra gli osservatori. Perseguitata durante gli anni di Ben Ali per il suo fondamentalismo e i legami con l’Iran, la formazione di Ghannouchi ha costruito la sua fortuna presentandosi come una forza che intende farsi portavoce delle istanze delle fasce più svantaggiate nonché come il simbolo dell’onestà e della lotta alla corruzione dopo la cleptocrazia del precedente regime. Nel caso tunisino, l’interrogativo non poggia tanto sul successo o meno del partito islamico, ma su quale sarà l’ampiezza della sua affermazione.

Come sottolineano gli osservatori, se l’Ennhada si limiterà a conquistare 55 o 60 seggi nel nuovo parlamento, è probabile che le forze politiche laiche e secolari possano confinare all’opposizione il partito islamico o quantomeno imporgli una grande coalizione, ma se il suo successo fosse di dimensioni maggiori sarà difficile negargli un ruolo di primo piano all’interno del nuovo esecutivo tunisino. Per alcuni, però, l’obiettivo del partito di Ghannouchi sarebbe di più ampio respiro, puntando non tanto a una rapida islamizzazione della società ma cercando invece di consolidare nel corso degli anni progressivamente la sua presa sulle istituzioni. Il tutto in un Paese in cui una parte della popolazione, forte di una tradizione secolare risalente agli anni di Bourghiba, non vuole saperne di leggi islamiche ma dove però è sempre più facile imbattersi in segnali di un crescente risveglio religioso, come dimostra la sempre più evidente presenza di donne abbigliate con il niqab per le vie di Tunisi. E una situazione analoga si riscontra in Egitto. Il crollo di Mubarak ha lasciato intatte solo due istituzioni, le Forze Armate ed i “Fratelli Musulmani” che si preparano a conquistare la vittoria alle prossime legislative.

Che se dovesse essere di ampie proporzioni, aprirebbe la strada a prospettive non certo rassicuranti per la comunità internazionale. Se per alcuni analisti coinvolgere i “Fratelli Musulmani” nell’azione di governo potrebbe fare emergere la componente più moderata del movimento, per altri invece non è escluso che sarebbe invece l’ala più radicale ed intransigente a prendere la guida del movimento, con il risultato che i rapporti con Israele entrerebbero in una fase quantomai critica. Ed in questo caso gli scenari prospettati vanno da mantenimento di una “pace fredda” a quello, per il momento ritenuto improbabile, di una denuncia degli accordi di Camp David le cui conseguenze sarebbero devastanti per la stabilità e la sicurezza dell’intera regione. Il tutto in un Paese dove non solo il clima politico sta peggiorando, come dimostrano i gravissimi scontri interreligiosi delle scorse settimane, ma soprattutto in cui tutte le misure restrittive varate dal regime di Mubarak continuano a restare in vigore.

E non meno diversa si presenta la situazione in Libia. La fine di Gheddafi, che aveva governato il Paese appoggiandosi solo sui legami tribali, ha lasciato il Paese senza alcuna struttura istituzionale tanto che i quadri del governo transitorio sono espressione o di esponenti del passato regime oppure, ed è questo l’aspetto forse più preoccupante, di elementi legati ai movimenti fondamentalisti. L’unica cosa certa è che per ricostruire una struttura statale ed amministrativa ci vorranno forse anni. Ma vi è un altro punto che va messo in luce nelle rivolte di questi ultimi mesi, ovvero il presunto ruolo avuto da Internet e degli altri mezzi di comunicazione nelle proteste che hanno portato al crollo dei regimi egiziano e tunisino. E qui è opportuno soffermarsi un attimo più attentamente. Nessuno mette in dubbio l’importanza di questi strumenti di comunicazione soprattutto tra le fasce più giovani ed istruite della popolazione. Ma affermare che siano stati loro a causare il crollo suona quantomeno azzardato.

La fine di Ben Ali e Mubarak è dovuta essenzialmente al fatto che i vertici militari nel momento più critico delle proteste hanno ritirato il loro sostegno ai rispettivi regimi. In Tunisia le Forze Armate, che Bourghiba prima e Ben Ali avevano relegato in posizione secondaria preferendo appoggiarsi alla polizia per mantenere l’ordine, ha mantenuto la sua storica posizione di apoliticità preferendo non intervenire nella repressione, mentre in Egitto, davanti alla crescente sollevazione popolare, i militari hanno scelto di non appoggiare la politica di Mubarak anche per salvare il loro stesso futuro ruolo istituzionale. Non va infatti dimenticato come in Egitto le Forze Armate non solo hanno da sempre un ruolo di primo piano sulla scena politica ma controllano anche una serie di rilevanti interessi economici.

A conferma va sottolineato come in Algeria, in cui la situazione sociale ed economica non è molto diversa da quella esistente in Egitto e Tunisia, il regime è tuttora ancora saldamente al potere proprio per la diversa posizione dei militari. Le Forze Armate algerine da sempre sono strettamente legate al potere politico, prima rappresentando uno strumento del “Fronte di Liberazione Nazionale” e in seguito intervenendo direttamente per salvaguardare la laicità dello Stato, come avvenne nel 1992 alla vigilia delle elezioni che avrebbero sancito il trionfo del “Fronte Islamico di Salvezza”, e per poi assumersi la responsabilità della lotta contro il terrorismo fondamentalista. Ecco perché oggi l’entusiasmo intorno alle “primavere arabe” va spegnendosi lasciando il posto ad interrogativi non certo tranquillizanti. Che, ironia della sorte, tra qualche tempo potrebbero addirittura far rimpiangere i (pessimi) passati regimi.