La nuova politica deve ritrovare la dignità pubblica perduta

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La nuova politica deve ritrovare la dignità pubblica perduta

17 Ottobre 2012

I costi della politica sono un’esigenza della Democrazia nella quale tutti devono avere la possibilità di esercitare i diritti politici attivi.

Solo nel secondo dopoguerra il parlamento italiano ha cessato di essere monopolio di liberi professionisti, industriali e uomini di cultura e si è aperto agli artigiani, commercianti, operai, impiegati. In quel momento ragioni di eguaglianza sostanziale hanno imposto correttivi per i parlamentari  impossibilitati a tenere il passo dei colleghi abbienti. Gli sconti sulle tariffe ferroviarie aeree autostradale nascono così. E così nasce l’indennità dei parlamentari. Nulla di più giusto.

La scelta di lasciare alla politica di individuare – senza alcuna regola e controllo – forme e ragioni di proprio finanziamento ha però condotto a Tangentopoli. Per evitare ricadute si decise di stabilire il finanziamento pubblico dei partiti (rimborsi elettorali inclusi) ma oggi si scopre che il rimedio è stato peggiore del male. Al punto che il Ministro dell’interno parla di tangentopoli aggravata.

Molti diranno di averlo previsto ma dare loro ragione non sposta che i costi della politica in democrazia sono a carico della collettività. Perché è in nome e interesse del popolo che i suoi rappresentanti agiscono o dovrebbero agire. Di conseguenza i problemi non è la qualità (sì invece nella quantità) del finanziamento della politica bensì nel modo che i politici hanno di considerare ed interpretare il loro ruolo. La politica dovrebbe essere munus publicum, mentre è vissuta come una professione.

Molti dei politici in attività non possiedono un reale passato professionale o lavorativo cui tornare in caso di mancata rielezione. O se lo possiede lo ha abbandonato volentieri e non agogna a riesumarlo. Molti politici (non tutti) hanno conseguito status culturali, lavorativi e professionali durante (e grazie alla?) la loro presenza in parlamento. Molti infine una posizione manageriale in qualche ente o organismo pubblico. Tutti il diritto a una indennità in caso di mancata rielezione.

Grazie al finanziamento pubblico molti politici vivono senza dover sostenere alcun costo vivo della quotidianeità tanto che il compenso fissato per il loro munus scade ad àrgent de pòche. E questo ha fatto crescere a dismisura il gap fra politici e cittadini, dipendenti professionisti o commercianti che siano.

L’illiceità penale delle spese dei politici regionali impegnerà la magistratura in una probatio diabolica perché la legge non chiarisce se quelle spese andassero rendicontate e comunque è così vaga nella definizione delle possibilità di spesa che tutto o quasi è consentito. L’uso di fondi politici per pagare feste o megacene può essere contestato per ragioni etiche ma difficilmente penali, perché – a detta di molti – non c’è modo migliore per rapportarsi con i propri elettori di una festa cui gli ospiti d’onore sono proprio loro. E così per quanto attiene alle auto e la benzina per andare a trovarli o le elargizione alle associazioni sportive ricreative e culturali che li sostengono. Diverso il caso di falsa o infedele elargizione di sovvenzioni a copertura di ristorni sottobanco. Come che sia non è in questa direzione che occorre guardare, la palla è altrove.

La politica deve recuperare integralmente la sua natura di esclusivo munus publicum cui chi vuole deve potersi dedicare con spirito di servizio ossia anche con proprio incomodo. Perché la politica non deve essere più considerata alla stregua di una professione. Né a livello nazionale né a quello locale.

Compensi, diarie, rimborsi vitalizi, accessori finanziari, benefit logistici per incarichi istituzionali (eccezion fatta per il Presidente della Repubblica o ragioni di sicurezza personale) devono scomparire al cessare del mandato o dell’incarico. Tutti dovrebbero però contare su indennità consistente che potrebbe essere pari alla media di quelle corrisposte dai parlamenti dell’Unione Europea con plus (calcolato in percentuale sulla indennità unica) per gli eletti appartenenti alle fasce di reddito inferiori a una certa soglia.

La pensione per l’attività politico-parlamentare (o incarico istituzionale) deve tornare una contraddizione perchè ragione del mancato ricambio generazionale. Se si ritenesse di prevedere una forma di indennizzo per chi si presta al Paese e ai concittadini a scapito del proprio lavoro si ipotizzino forme di risarcimento trasparenti. Immagino: per un dipendente l’accantonamento dello stipendio e la ricostruzione della carriera come se non avesse mai cessato di lavorare e fosse stato il migliore tra i colleghi; per un professionista una somma di denaro non tassabile pari alla media di quanto aveva guadagnato nei tre anni precedenti la sua elezione moltiplicato il numero degli anni di mandato; idem per un commerciante o un imprenditore. Il calcolo andrebbe effettuato sulla base dei redditi denunciati al momento della candidatura. Nessun risarcimento invece per le rendite di posizione (immobiliari finanziarie ecc.). Infine, l’indennizzo dovrebbe spettare solo agli eletti che non possono o decidono di non continuare a svolgere il proprio lavoro o professione.

A parte questo (e i legittimi contributi per la campagna elettorale ai partiti) ciascuno deve contare solo sulla propria professionalità una volta lasciate le istituzioni. Inclusi i giovani cui nessuno si sognerebbe di accidentare l’accesso al parlamento ma non al rischio di far loro percepire la politica come occasione per ritagliarsi un ruolo lavorativo nella società.

In una democrazia sana il vero compenso dell’impegno politico è il prestigio che deriva da quel munus e l’unica dote da spendere per la rielezione è il giudizio degli elettori sul modo che si è avuto di rappresentarli. Un’utopia? Che però deve tornare ad essere elemento per indirizzare il comportamento di elettori ed eletti.