La nuova Serbia guarda all’Europa
28 Maggio 2007
La Serbia vive oggi un momento particolarmente significativo della sua storia. Il 23 maggio, il tribunale di Belgrado ha giudicato gli esponenti della temuta guardia di Slobodan Milosevic colpevoli dell’assassinio dell’ex premier democratico Zoran Djindjic. In aula, ad ascoltare le sentenze, c’erano tutti i leader attuali del Paese balcanico, dal capo dello Stato, Boris Tadic, al primo ministro, Vojislav Kostunica, con i ministri del suo esecutivo. Kostunica è riuscito proprio la settimana scorsa a ottenere la fiducia in Parlamento, segnando così la fine del lungo periodo di stallo seguito alle elezioni legislative del 21 gennaio. Il nuovo governo serbo ha il sostegno di una coalizione composta da partiti liberali e pro-europei e in questo modo Kostunica è riuscito ad aggirare l’ostacolo rappresentato dal Partito radicale serbo. Si tratta quindi di un risultato importante. La compagine nazionalista, da sempre dichiaratamente nostalgica del passato, è uscita vincitrice dalle urne, ma nonostante la maggioranza relativa è stata subito isolata dalle altre forze in campo, che hanno raggiunto un accordo per dar vita a un governo senza il Partito radicale, sventando in tal modo la possibilità di un ritorno al voto da cui i nazionalisti sarebbero stati gli unici a trarre vantaggio.
Questi avvenimenti ci dicono che è in atto una vera e propria svolta nella politica e nella società della Serbia. Sono l’espressione di un profondo desiderio da parte della popolazione di chiudere una volta per tutte la pagina più buia della propria storia, segnata da una interminabile serie di conflitti civili, dall’insicurezza, dal malessere e dall’isolamento internazionale che hanno accompagnato la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, la cui ultima conseguenza è stata la separazione del Montenegro. Ma questo è il passato; i serbi, soprattutto i giovani, preferiscono guardare al futuro e, come dimostrano i sondaggi, in tale ottica non vedono alternative all’Unione Europea.
L’Europa è così divenuta un fattore determinante per l’evoluzione della situazione politica ed economica di Belgrado. Sia la Commissione che i 27 paesi membri sono consapevoli della necessità di una posizione attiva verso la Serbia, disponendo tra gli altri di uno strumento efficace qual è la condizionalità. Ecco perchè il fervore diplomatico degli ultimi giorni non deve sorprendere. Sin dal suo primo giorno di vita, il nuovo governo serbo è stato oggetto di particolare attenzione da parte delle cancellerie europee. Il primo a pronunciarsi è stato certamente il commissario responsabile per l’allargamento, Olli Rehn, il quale ha avanzato l’ipotesi della ripresa dei negoziati sull’Accordo di stabilizzazione e associazione (ASA), tappa preliminare alla futura adesione. Ad appoggiare questa iniziativa sono stati anche diversi ministri degli Esteri dei 27, come anche esponenti del Parlamento europeo, con il presidente del Partito dei socialisti europei, Pol Nirup Rasmusen.
Tuttavia, il lungo e difficile cammino verso la membership passa inevitabilmente per la risoluzione di due questioni assai delicate tuttora irrisolte. In effetti, mentre sembra ci sia un’intesa di massima sulla cattura e sulla consegna al Tribunale penale dell’Aja dell’ex generale e criminale di guerra Ratko Mladic, il punto di rottura è rappresentato dallo status della provincia del Kosovo. Al momento, la situazione internazionale non è certamente favorevole al raggiungimento di una soluzione accettabile per la Serbia. Il piano all’esame dell’ONU è caldeggiato fortemente dall’Ue, sulla scia del rapporto dell’inviato speciale Marti Ahtisaari, ma non trova consensi a Belgrado. All’indomani della formazione del nuovo governo, infatti, molti alti esponenti dello Stato serbo, fra cui anche il presidente Tadic, hanno messo le mani avanti, ribadendo di non voler rinunciare “né al Kosovo, né all’UE”. Tale posizione, peraltro, viene apertamente sostenuta anche dalla Russia. Quest’ultima ha in questo fase relazioni difficili con gli Stati Uniti e, come ha dimostrato il vertice di Samara, persino con l’Ue. Tutto ciò rende l’iniziativa dell’Onu sullo status del Kosovo alquanto difficile da portare avanti. Il prolungamento dello status quo, tuttavia, minaccia di far esplodere nuove tensioni interetniche, con il rischio di mettere a repentaglio il lavoro fin qui svolto dalla stessa Onu e dalla Nato nell’ambito della missione Kfor. Emerge quindi chiaramente quanto il ruolo dell’Ue nelle vesti di mediatore sia oggi indispensabile. Bruxelles, infatti, potrebbe riuscire a trovare una soluzione di compromesso che tenga conto degli interessi di tutte le parti in gioco, nel quadro di rapporti istituzionalizzati e sempre crescenti con Belgrado e Pristina. In quest’ottica, i 27 sono chiamati a trovare al più presto una posizione comune che sia equa rispetto agli interessi in ballo. Non è cosa facile, ma l’Ue non può permettersi di perdere quella che è forse l’ultima chance per aiutare la Serbia nel suo cammino verso la piena integrazione nella comunità internazionale, per la stabilità dei Balcani e non ultimo per la stessa credibilità dell’Europa nel mondo