La pandemia e la vittoria della società “calda” (di G. Quagliariello)

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La pandemia e la vittoria della società “calda” (di G. Quagliariello)

17 Ottobre 2021

Probabilmente ci accorgeremo lunedì che quello che tante volte è stato detto – e cioè che la politica dopo il Covid non sarebbe più stata quella che era prima – inizia a concretizzarsi. Si tratta di uno snodo che può essere affrontato politologicamente, parlando di sistema politico, di elezioni presidenziali, di legge elettorale. Prima di tutto ciò, tuttavia, io credo che bisogna riflettere su cosa la pandemia ci ha insegnato, quali sono stati i mutamenti culturali che ha introdotto, quali i mutamenti strutturali che a livello sociale si sono verificati.

Forse si può iniziare col dire che il modello di una società molto accentrata nella dimensione urbanistica, nella dimensione economica e in quella lavorativa è stato quello maggiormente colpito. Il Covid è stato un fenomeno per lo più urbano, legato alle grandi metropoli; si è diffuso laddove il sistema economico si basa prevalentemente sulle fabbriche e non sul terziario, elemento che a livello di interazione sociale implica grandi aggregazioni. E lo stesso discorso sulle falle dei sistemi “accentrati” vale in campo sanitario: dall’arrivo del virus cinese in poi è tutto un gran parlare di ospedali orizzontali, di sanità diffusa e di prossimità, addirittura di telemedicina… Discorsi da non assumere come totem in sostituzione dei totem precedenti, e che però certamente andranno approfonditi.

Fondamentalmente con il Covid è fallito anche un modello sociale basato su relazioni umane ridotte all’essenziale, ispirate più all’efficienza che non all’affettività. Un approccio che implica ad esempio la proliferazione delle RSA, con il problema dell’assistenza dell’età fragile gestito fuori dall’ambito familiare. E’ un fatto che nei contesti nei quali le strutture familiari hanno retto e funzionato, certamente la pandemia è stata affrontata meglio.

Senza creare una contrapposizione tra Nord e Sud – che peraltro non avrebbe senso, anche perché il modello di società “calda” lo si trova anche in alcune aree del settentrione che non a caso hanno retto meglio di altre – al fine di mettere a frutto la lezione del periodo da incubo che abbiamo attraversato è forse il caso di chiedersi se fra i tanti fattori per i quali il coronavirus soprattutto nella prima fase ha colpito maggiormente il settentrione, e comunque ha prodotto al Nord danni sanitari superiori al resto d’Italia, vi siano anche il modello sociale e la struttura economica. Ora stiamo ripartendo e mentre progettiamo il futuro è il momento di porre alcune questioni.

La prima riguarda proprio il futuro: come spiegherà domani il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo su questo giornale, noi guardiamo al tempo che ci attende ma, per un paradosso che la dice lunga sul deficit di vitalismo del nostro tempo, il futuro si va “restrigendo”: mentre la vita dei singoli si allunga, il tempo di vita del popolo italiano nel suo complesso accorcia le sue prospettive. Dunque, all’uscita del tunnel che abbiamo attraversato in questi due anni, e a monte del tema del Recovery Plan, sarebbe il caso di porre una volta per tutte il problema dell’emergenza demografica. Il fatto che non esistano ricette pronte per risolverlo non è un buon motivo per non affrontarlo. Anzi. Al netto dell’ideologia di chi vede nel crollo demografico la soluzione al problema climatico (aiuto!), spero si possa dire che le due questioni dovrebbero avere quantomeno pari attenzione da parte della politica e del dibattito pubblico…

Inoltre – senza scivolare lungo il crinale che conduce alla “decrescita felice”, alla deindustrializzazione e via dicendo – bisogna elaborare un modello di sviluppo che integri le costanti della crescita con le lezioni che ci vengono dalla pandemia. E questo dovrebbe farlo innanzitutto il centrodestra, invece di correre appresso ai malumori delle piazze… Bisogna cioè ragionare su un modello di società fondato sulla persona, sulla crescita, sull’identità, sulla rete di relazioni umane; su tutti quegli elementi che non contraddicono lo sviluppo, che appartengono all’orizzonte ideale del conservatorismo e che possono conoscere oggi una nuova primavera se solo si tiene a mente l’insegnamento di questi due anni. Uno scenario che culturalmente ci appartiene, del quale nessuno sembra accorgersi e che dovremmo evitare di regalare ai nostri avversari.