La parabola di Ciancimino e di un pm collezionista di raggiri
25 Aprile 2011
Forse il dottore Antonio Ingroia avrebbe bisogno di una vacanza. Lunga e rigenerante. Al riparo da comizi, comparsate in tv e fatiche letterarie che evidentemente l’hanno logorato, ma soprattutto lontano da quelle inchieste che da qualche anno a questa parte gli hanno procurato più d’una cocente delusione.
Ora che la sua "quasi icona dell’antimafia" è finita in manette con l’accusa di calunnia pluri-aggravata, il procuratore aggiunto di Palermo prova a ostentare sicurezza. "Mi preoccuperebbe scoprire di essere stato raggirato in una calunnia senza rendermene conto", ha detto all’indomani del fermo di Massimo Ciancimino. "Quando i fatti si scoprono e si contribuisce all’accertamento della verità non c’è motivo di preoccuparsi".
E invece, al posto di Ingroia qualche ragione di essere corrucciati ce l’avremmo. Non solo perché talvolta a scoprire i fatti ci si arriva quando il grosso dei danni sono già stati provocati. Non solo perché quei danni c’erano tutte le avvisaglie per evitarli. Ma anche perché di raggiri a sua insaputa "u Professore" ormai ne ha collezionati parecchi, e se lui non è preoccupato per se stesso, di certo noi siamo preoccupati per lui.
Non si è accorto che mentre imbastiva inchieste esplosive contro Marcello Dell’Utri gomito a gomito col maresciallo Pippo Ciuro, stimato a tal punto da propiziargli attraverso Giancarlo Caselli e Massimo Brutti un remunerativo reclutamento presso il Servizio segreto militare, lo stesso maresciallo Ciuro spifferava a Michele Aiello informazioni riservate dalla Procura. Cosa che al Ciuro è costata una condanna a quattro anni e otto mesi per favoreggiamento, mentre al "puro" ("i puri e i Ciuri", così a Palermo chiamavano il pm e il maresciallo) è costata la sola fatica di dover rispondere con una scrollata di spalle alla lettera pubblica di Dell’Utri che si chiedeva come potessero i magistrati continuare a sostenere contro di lui un’accusa costruita sulle investigazioni di un traditore dello Stato.
E ancora. Ingroia non si è accorto che mentre una squadra di muratori inviata da Michele Aiello ristrutturava la masseria di suo padre in quel di Calatafimi, l’imprenditore di Bagheria proprietario di cliniche private e imprese edili, recentemente condannato dalla Cassazione a quindici anni e mezzo, veniva indicato dal pentito Nino Giuffrè addirittura come prestanome di Bernardo Provenzano.
Infine, ed è storia di questi giorni, il Professore non si è accorto per tempo che mentre le sue patenti di attendibilità lo accreditavano come personaggio spendibile per convegni e salotti televisivi e testimone d’accusa nelle aule dei tribunali, Ciancimino junior distribuiva patacche taroccate. C’è da capirlo, povero Ingroia: le ciance del figlio di don Vito su terzi e quarti livelli devono avergli risvegliato quell’attrazione fatale per il misterioso e il politicamente indicibile che il crollo del teorema caselliano denominato "sistemi criminali" aveva temporaneamente oscurato.
E però il Nostro è anche un po’ sfortunato: l’avessero scoperta prima, la patacca di Ciancimino, avrebbero consentito a Ingroia di far sparire dal suo libro "Il labirinto degli dei" quell’imbarazzante iconografia del figlio di don Vito assurto a "quasi icona dell’antimafia", o di declinare l’invito di Maurizio Torrealta a scrivere la prefazione del suo volume sul "quarto livello" ispirato proprio alla bufala contro Gianni De Gennaro che ha portato in carcere l’intraprendente rampollo, o ancora di rilasciare a futura memoria dichiarazioni del tipo: "Il giudizio di credibilità su Massimo Ciancimino, finora positivo, nasce da una attività minuziosa di verifica e riscontro delle dichiarazioni" (Palermo, 19 maggio 2010). O, infine, di replicare stizzito a Pino Arlacchi che metteva in guardia sull’attendibilità del super (!) testimone: "Credo che i magistrati di Palermo, che hanno avuto maestri come Falcone e Borsellino, sappiano come si fanno le indagini". Le ultime parole famose.
In fondo, il dottore Ingroia ci sarebbe potuto arrivare. Non solo per le cautele ben più incisive dei rivali pm di Caltanissetta, che per le false accuse a De Gennaro avevano inquisito Ciancimino già da un bel pezzo. Non solo per le imbarazzanti intercettazioni ambientali che nel dicembre 2010, nel pieno del suo fulgore mediatico, lo sorpresero a colloquio con un uomo accusato di essere l’economista della cosca dei Piromalli, nel sospetto tentativo di ripulire denaro. Ma anche per certe macroscopiche incongruenze, come quella relativa al presunto pizzino di "zu Binnu" Provenzano a don Vito sul "comune amico senatore", consegnato dal giovane Massimo ai magistrati palermitani e nisseni. "Quel pizzino si riferisce a Dell’Utri", riferì Ciancimino junior con gran clamore mediatico. Peccato che all’epoca cui il pizzino si riferisce l’esponente forzista fosse deputato e sugli scranni di Palazzo Madama non avesse mai messo piede.
E invece niente: Ingroia e il suo pool a Ciancimino danno retta, al punto di andare a ripescare negli archivi, su suo suggerimento – neanche fossero un Genchi con un De Magistris qualsiasi -, vecchie e misteriose bobine di intercettazioni risalenti al 2004 di cui il procuratore aggiunto di Palermo si appresta a chiedere, ben sette anni dopo, l’autorizzazione all’utilizzo contro l’onorevole Saverio Romano, appena diventato ministro del governo Berlusconi (con irrituale riserva del Colle causa pendenze giudiziarie). Che straordinarie coincidenze!
Ci dirà il Professore, e in parte già ci ha detto: noi valutiamo caso per caso, e alcune dichiarazioni di Ciancimino sono riscontrate e stanno in piedi a prescindere dall’attendibilità complessiva di chi le ha formulate. Poi, bontà sua, ammette che la credibilità del testimone è "minata". Ma non sembra crucciarsene più di tanto, perché quel che conta è aver scoperto l’inganno e molto peggio sarebbe stato continuare a farsi prendere per i fondelli.
Le cose, in realtà, sono un po’ più complesse e preoccupanti di come Ingroia le presenta. Perché il prefetto De Gennaro non è il primo né l’unico uomo dello Stato che attraverso Massimo Ciancimino è finito nel tritacarne mediatico-giudiziario. Fortunatamente la sua pubblica onorabilità è stata prontamente ripristinata, ma c’è il fondato sospetto che altri uomini delle istituzioni siano stati ingiustamente "mascariati" senza il sollievo di una tempestiva riabilitazione. Il figlio di don Vito ha solcato convegni, salotti televisivi, soprattutto aule di tribunale nelle vesti di testimone. Ancora pochi giorni fa presenziava in Umbria al Festival del Giornalismo con Eugenio Scalfari e Milena Gabanelli.
Insomma, se anche la patacca su De Gennaro dovesse rivelarsi per lui fatale, il lungo transito della meteora Ciancimino non sarà indolore per il Paese. Se anche la Procura di Palermo si rassegnerà a prenderne repentinamente le distanze, proprio come avvenne con Pippo Ciuro, e se anche fra vent’anni qualche sentenza dovesse giungere a decretare la calunniosità delle sue dichiarazioni e l’innocenza dei suoi bersagli, resterà sulle spalle di chi gli ha dato credito e visibilità il peso di non aver impedito che egli contribuisse ad inquinare il corso di processi e ad avvelenare i pozzi della nostra fragile democrazia. Ed è sconfortante che tutto questo possa accadere nel Paese che ha conosciuto l’onta di una storia infame che va sotto il nome di Baldassarre "Balduccio" Di Maggio.
A difendere la gestione di Massimo Ciancimino da parte della Procura di Palermo c’è rimasto per il momento solo Marco Travaglio (che a Trabia ricordano anni addietro in villeggiatura in frequente compagnia di Ciuro e Ingroia). Per il resto, è un fuggi fuggi generale. Compresi Repubblica e Corriere della Sera, fra loro eternamente in guerra, che dopo averne amplificato le dichiarazioni ora mobilitano le firme di punta per dire che probabilmente al figlio di don Vito i magistrati hanno dato troppa corda. Anche questo, in fondo, è un segno dei tempi: vuol dire che gli anni passano ma nel nostro Paese resiste un solo uomo potente a tal punto che in sua difesa tutti si ricompattano e blasonati professionisti dell’antimafia possono rischiare di cadere in disgrazia. E il suo nome è Gianni De Gennaro.