La peculiarità istituzionale del Presidente della Repubblica italiana

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La peculiarità istituzionale del Presidente della Repubblica italiana

La peculiarità istituzionale del Presidente della Repubblica italiana

18 Marzo 2012

Una fra le istituzioni, uno fra i poteri costituzionali, ha caratteristiche elastiche, è potenzialmente capace di espandersi o ritrarsi: il Presidente della Repubblica. Fin quando il corpo istituzionale e politico è sano, comprendendo in questo stato anche le normali malattie stagionali, l’elasticità funziona da compensazione, da stimolo, e, qualche volta, da fastidio. Quando, però, il corpo manifesta palesi squilibri, quando muta completamente il panorama (interno e internazionale) nel quale la Costituzione è stata concepita, quell’elasticità può funzionare da fionda. Restando da stabilirsi se rompere le finestre del palazzo sia da considerarsi atto liberatorio o teppistico.

Quell’elasticità non fu un errore o una mancanza, fu in gran parte voluta dai costituenti. I quali, però, avevano in mente, e non poteva essere diversamente, i problemi di quei tempi e la necessità di avviare un sistema istituzionale per noi inedito. Si rifecero ad esempi costituzionali stranieri, ma disegnarono una trama che era tutta nazionale. La storia successiva, come vedremo, s’incaricò di dare significato politico a quell’elasticità, anche quando questa ha fatto correre dei rischi, taluni assai gravi. Non a caso un costituzionalista come Livio Paladin, che fu anche presidente della Corte Costituzionale, definì il Presidente della Repubblica “la più enigmatica e sfaccettata fra le cariche pubbliche previste dalla Costituzione”. Un enigma che continua a produrre dilemmi. Un enigma che, a breve, tornerà a dovere essere risolto.

Perché si sentì il bisogno di questa figura costituzionale, posta al di sopra dei partiti e del Parlamento? Perché si volle eleggerla e descriverla come se fosse possibile agguantare un risultato pressoché impossibile, ovvero porla al di sopra delle parti? Democrazie solide e antiche non hanno sentito questo bisogno. Negli Stati Uniti il Presidente è il capo dell’esecutivo, eletto direttamente dal popolo (sebbene per il tramite di delegati appositamente votati) il che significa renderlo espressione di una maggioranza politica. Egli incarna l’unità federale, ma non per questo perde il segno del proprio orientamento politico, e degli elettori che lo hanno voluto. Ed è tanto politica la sua missione che, per svolgerla, deve vedersela costantemente con il Senato e il Congresso, dove può perdere (e sovente accade) la maggioranza e, quindi, il dominio di fatto, vedendosi costretto a mediare ogni sua scelta, ogni decisione che non corrisponda ad un potere direttamente attribuitogli e sia bloccabile con strumenti parlamentari. E’ un capo di governo, assai più di quanto non sia un capo di Stato. Nella Francia della quinta Repubblica, l’attuale, non è il capo dell’esecutivo, ma ha poteri di governo, che a sua volta nomina, dovendo tenere presenti le maggioranze parlamentari. Quando la maggioranza che elegge il Presidente non coincide con quella che elegge il Parlamento si parla di “coabitazione”, vale a dire, ancora una volta, del bisogno che l’Eliseo ha di contrattare le scelte, le riforme, le iniziative che intende intraprendere. Nessuno si sogna di considerarlo al di sopra delle parti, essendo parte stessa della lotta politica. Eppure ciò non fa venir meno la sua autorevolezza, il suo dare concretezza all’unità nazionale. La Gran Bretagna è una monarchia, sicché l’unità del regno è effettivamente incarnata dal re (dalla regina, da molti anni), ma si tratta di un coronato senza poteri. Al di sopra delle parti, ma nel senso che non è parte della vita politica. Capita anche ad altre monarchie europee, che conservano la forma del passato così come i fossili raccontano la vita d’un tempo, che oggi è solo forma, priva di sostanza effettiva.

Allora, perché da noi quel segno d’unità ha dovuto prendere la forma di una pretesa impoliticità? Probabilmente perché era debole l’unità stessa, così come era debole la Repubblica, nata da una voto referendario in cui si dovette contare fino all’ultima scheda, succeduta ad un regime, quello fascista, che si volle imbozzolare come una specie di prodotto non riconducibile all’identità nazionale e alla volontà popolare e che, invece, aveva goduto di consensi vasti e generali, culturali, economici e politici, divenendo l’espressione profonda dell’Italia quale era. Fu anche per questa ragione, come vedremo nel quarto capitolo, che il primo Presidente, sebbene provvisorio, della Repubblica fu un monarchico.

La nostra Costituzione, però, ha fermato la struttura istituzionale a quel fotogramma, partorendo una carica dai contorni non univoci. La cosa era chiara a Costantino Mortati, costituzionalista, maestro di diritto pubblico, sui cui testi si sono formate generazioni di giuristi, eletto all’Assemblea Costituente e membro della Commissione dei 75 (incaricata di stendere il testo su cui poi l’Assemblea avviò la discussione), il quale rifletteva sui compiti “più estesi ma meno precisamente determinabili” che il Presidente della Repubblica assolve, ben al di là di quelli esplicitamente codificati.

Tutto questo ha dato luogo ad uno strano mescolarsi di formule e suggestioni, al punto che, ancora oggi, si guarda con sospetto chi mette in evidenza l’indirizzo politico dell’inquilino del Quirinale, quasi già questa sia una specie d’offesa, mentre l’intera storia dell’istituzione non fa che confermare il suo decisivo ruolo nella vita politica. Insomma, il nostro Presidente non è certo la regina Elisabetta, ma non è neanche il Presidente tedesco descritto dalla Costituzione del 1949, che non ha nessuna possibilità d’iniziativa, eppure non è un Presidente eletto dal popolo, come in Francia, o il portatore di una impostazione politica propria e vincente, come negli Stati Uniti. E’ un prodotto costituzionale nato per dare fiato alla Repubblica nascente e forma all’unità nazionale, pertanto riveste un ruolo totalmente conforme al resto della Carta, che volle governi deboli e Parlamento dominante. Salvo il fatto che, da allora ad oggi, è cambiato il mondo ed è cambiata anche la Repubblica italiana.

Ragionare sugli uomini del Colle, comprendere quanto quell’istituzione sia, al tempo stesso, frutto degli equilibri politici e determinante nel loro definirsi, quale sia il peso della sua influenza, quali le criticità di un potere non frutto del voto, quindi privo d’investitura popolare, ma esercitato quasi sempre con gran popolarità, ragionare di queste cose è necessario, per due motivi. Il primo è relativo al complesso della Costituzione, che tanti considerano intoccabile e quasi mai si ricorda che è stata già toccata e trasformata molte volte, pure in punti essenziali. Prima o dopo si dovrà mettere mano ad una riscrittura, perché il testo entrato in vigore il primo gennaio del 1948 ha dei meriti straordinari, compreso quello di avere accompagnato la crescita economica e civile dell’Italia, di avere subito gli anni duri della guerra fredda e del terrorismo, senza mai esporre il Paese al rischio di smarrire l’orientamento democratico. Da questo punto di vista la Carta deve essere promossa a pieni voti. Ma è anche vero che quell’ordito istituzionale era consustanziale al sistema elettorale con cui è nato e cui ha dato vita: quello proporzionale. Nel momento in cui s’è presa un’altra direzione s’è, consapevolmente o meno, cominciato a camminare su un terreno diverso, non conciliabile con molte delle vigenti previsioni costituzionali. Si può fare finta di non accorgersene o di non vederlo, così come si può non prendere atto delle crepe che si aprono in un edificio. Ma non sarà la distrazione o il parlar d’altro che lo renderanno più solido.

Il secondo motivo è più contingente: la partita per il Quirinale è nuovamente aperta. Per la terza o quarta volta (più avanti il lettore potrà decidere come tenere la contabilità) dovrà essere giocata senza i protagonisti naturali che la Costituzione aveva immaginato in campo: i partiti politici e i governi nati dal loro coalizzarsi. Nella primavera del 2013 un nuovo Parlamento, che quando queste pagine vengono scritte deve ancora essere eletto, integrato per divenire seggio presidenziale, dovrà decidere quale delle tre possibili strade imboccare: a. un Presidente dotato di forza politica propria, la cui elezione avvii la trasformazione di fatto in Repubblica presidenziale; b. un Presidente privo di forza autonoma, scelto perché sia garante delle riforme costituzionali, quindi invertendo l’ordine consolidato dei fattori, talché il prodotto politico cambi; c. un Presidente di continuità, che, in realtà, sarebbe puntare su un compromesso senza scopo specifico, nella speranza che l’elastico, a furia d’essere teso, non si rompa.
Riprenderemo questa riflessione alla fine, dando conto del perché abbia voluto introdurre una nuova assurdità matematica, dopo quelle geometriche del passato (qualcuno ricorda le “convergenze parallele”?). Ho voluto anticipare il concretissimo dilemma perché leggendo questo libro, che tratterà di diritto costituzionale senza essere un testo consacrato a tale disciplina, che tornerà a raccontare la storia senza essere un testo di storia, perché sia chiaro di cosa stiamo parlando: della nostra vita collettiva, della nostra necessità di avere istituzioni solide e funzionanti, del nostro disperato bisogno di affrancarci dal passato, sicché il futuro sia il tempo in cui affrontare le sfide nuove e non, come ora appare, lo spazio occupato dal regolamento di conti pregressi, di cui molti hanno perso anche solo il filo conduttore.

Nutrire rispetto per le istituzioni è cosa buona e giusta. Si può essere rispettosi anche nella critica, non mancarne nel descrivere quelli che si ritiene siano degli errori. Sarebbe ipocrita ritenere che questo sia l’atteggiamento generale, nei confronti del Presidente della Repubblica. Piuttosto prevale una specie di sacralità della carica, quasi un’eredità monarchica. I giornalisti che seguono il presidente, detti “quirinalisti”, cambiano il tono di voce, quando ne parlano, o, forse, vengono scelti proprio per quell’attitudine a raccontarne le gesta, quasi sussurrando, quasi si trovassero a dovere rivolgersi agli altri da un luogo sacro. I quirinalisti dei telegiornali inanellano racconti fatti di saggi ammonimenti e popolazioni festanti. I quirinalisti dei giornali fanno a gara per avere la soffiata più interessante e, per ciò stesso, non scriverebbero mai una riga che possa alterare gli umori del Colle più alto.

In un Paese cinico e dissacrante, nel quale non t’affacci in prima pagina se non per scrivere male di qualcuno o qualche cosa, in cui i telegiornali sono un susseguirsi di disgrazie, capita che le musiche di fondo, quando si tratta del Quirinale, siano quasi sempre eseguite al flauto. Ci sono state occasioni in cui le cose andarono diversamente. Giovanni Leone fu indotto alle dimissioni da una dura campagna giornalistica, sebbene la ragione vera di quella sua decisione sia stata tutta politica e tutta legata al venir meno delle condizioni che ne avevano determinato l’elezione. Prima di lui Antonio Segni fu al centro di discussioni ruvide, ma circoscritte al mondo politico, chiuse frettolosamente per ragioni di salute. Gli ultimi anni della presidenza di Francesco Cossiga (l’ultimo Presidente della prima Repubblica, posto che la seconda non è mai nata e il suo successore ne era inquilino a tutti gli effetti) furono travagliati, al punto che i comunisti (esistevano, erano un partito ed erano anche suoi cugini) ne chiesero la messa in stato d’accusa. Ma, appunto, queste sono eccezioni. E anche queste eccezioni dimostrano quanto sia diverso il modo in cui pubblicamente si discute del Presidente, con molte più cautele e assai meno aggressività. Ci furono presidenti, come Giovanni Gronchi, al centro di dispute politiche durissime, ma senza che sia venuto meno questo diverso atteggiamento.

La ragione c’è, e non risiede solo nel naturale conformismo, cui tanti si dedicano con devota passione: l’istituzione presidenziale è ambigua, perché frutto della politica, ma collocata sopra di essa. Il fatto che il Presidente rappresenti l’unità nazionale gli attribuisce una funzione degna di venerazione, ma supporre che egli sia una specie di arbitro imparziale e costantemente sopra le parti significa sconoscere la storia e fraintendere il presente. Sul Colle abita un potere reale, non cerimoniale. E quanti credono che sia à la page ed evolutivo il suo affrancarsi da funzioni spregiativamente definite “notarili” dimentica, o non ha mai saputo, che quella definizione la si deve al più fine giurista eletto Presidente della Repubblica, nonché costituente, quindi coestensore della carta e con un ruolo certo non marginale, Giovanni Leone, il quale la utilizzò per riportare il Quirinale ad una funzione meno esposta politicamente, che tanta avversità aveva provocato nelle sinistre. Lo so, a tante orecchie sembrerà strano, se non oltraggioso, ma la differenza fra storia e mitologia la s’insegna a scuola.

Ai costituenti si pose un problema: come eleggere questo incrocio istituzionale, dotato di poteri propri, ma da considerarsi non espressione diretta della politica? Un esempio di cosa non fare veniva dall’esperienza tedesca della Repubblica di Weimar (1919-1933, storia conclusasi con la consegna del potere nelle mani di Adolf Hitler, che in quel sistema trovò lo strumento per affermarsi, salvo poi travolgerlo): non si doveva far eleggere dal popolo un Presidente che sarebbe potuto divenire antagonista del Parlamento, compromettendo irrimediabilmente gli equilibri istituzionali. Ma cosa non fare non risolveva il problema di come fare. Tanto più che l’ala moderata voleva che il Presidente avesse forza ed autorevolezza propri, quindi tendeva verso un suffragio significativo, se non direttamente popolore, mentre la sinistra preferiva la nomina parlamentare, proprio per evitare pericolosi dualismi.

Le due posizioni estreme erano rappresentate dal Partito d’Azione e dal Partito Comunista. Il primo puntava ad una vera e propria Repubblica presidenziale, naturalmente accompagnata dai necessari checks and balances, quindi da contropoteri e controlli, in modo che il Presidente avesse una maggioranza politica propria, diversa da quella parlamentare, talché potesse, questa era la tesi azionista, garantire la governabilità e la saldezza del potere esecutivo. Il secondo, all’opposto, riteneva che al Presidente dovessero essere affidati poteri meramente protocollari, praticamente inesistenti, e vedeva nella centralità parlamentare, quindi nel libero dispiegarsi dei rapporti fra le forze politiche e nel dipendere del governo da tali rapporti la migliore garanzia per la democrazia. Sono convinto che, a guardare la nostra storia recente, non pochi, sconoscendole, sarebbero portati a ritenere capovolte le posizioni di allora.

Il modello che prende piede, quindi, è di tipo dualistico, con un Presidente che fa da simbolo e un Parlamento cuore del potere reale. Un modello che somiglia moltissimo a quello della monarchia costituzionale, ma con il nostro Presidente dotato di maggiori poteri, rispetto a re. L’Italia che si lasciava alle spalle la monarchia, pertanto, non ne superò lo schema portante, riproducendolo in Repubblica. La cosa singolare è che se si osserva con attenzione il percorso di quella discussione ci si accorge che al suo termine il Presidente ne esce rafforzato, perché i suoi poteri contano e la sua legittimazione è solida, così come ne esce rafforzato il Parlamento, secondo l’indirizzo originariamente sostenuto dai comunisti, perché nulla può essere fatto senza il consenso del potere legislativo. L’istituzione debole, alla fine, fu il governo: instabile, privo di diretta legittimazione popolare, sottoposto ai marosi parlamentari. Il compromesso costituzionale non tenne in alcun conto le preoccupazioni azioniste, orientandosi a non ritenere prevalente la governabilità, preferendo privilegiare l’assemblearità. Combinandosi i due elementi, la centralità del Parlamento e i poteri presidenziali, ne venne fuori un governo non solo debole, ma sotto tutela (o, se si preferisce, sotto schiaffo) quirinalizio. Il primo a rendersene conto, e a farne le spese, fu Alcide De Gasperi, che pur detentore di una solidissima maggioranza parlamentare sperimentò presto l’impotenza governativa.

Il compromesso si fece andando incontro alle richieste della sinistra, ma costruendo attorno al Presidente un ruolo di garanzia e indirizzo. In tal senso si mossero la democrazia cristiana, il partito repubblicano e quello liberale. A sigillarlo fu un ordine del giorno di Tomaso Perassi, repubblicano, votato il 5 settembre del 1946.

Preso l’orientamento della nomina parlamentare si pose, però, un problema poi tornato, sotto spoglie diverse, di totale attualità: come si fa ad evitare che il Presidente sia l’espressione di una semplice maggioranza politica, la quale, per giunta, potrebbe cambiare nel corso del suo settennato? Sarebbe bene rileggerle, le pagine di quel dibattito costituente, perché noi eleggiamo, da tre legislature, il Parlamento con una legge elettorale che prevede il premio di maggioranza e che, pertanto, toglie del tutto significato alla soluzione trovata nel 1947. Soluzione articolata in due presupposti: a. la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente non sarebbe mai dovuta essere semplice; b. il Parlamento, con le due Camere riunite in seduta comune e divenuto seggio elettorale, sarebbe stato integrato da membri chiamati a svolgere solo e unicamente quella funzione.

Ed ecco la soluzione ideata, tuttora in vigore, che trova collocazione nell’articolo 83 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato. L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta”.

Occorre ricordare che, nel corso del dibattito costituente, fu preveggentemente sollevato il problema di un’eventuale, perdurante difficoltà a raggiungere la maggioranza assoluta. Come, poi, effettivamente avvenne. E si propose che, ad un certo punto, fossero portati al ballottaggio solo i due candidati più votati, in modo da determinare necessariamente il risultato della maggioranza assoluta. Ma fu una soluzione scartata, proprio perché si ritenne utile lasciare libero il seggio, ovvero il Parlamento integrato come si è visto, di perseguire l’elezione senza essere in nessun modo forzato. Si lasciò, pertanto, la figura presidenziale nella sua indeterminatezza: nei primi tre scrutini puntando ad una sorta di unità nazionale, nei successivi ripiegando sull’unità di una maggioranza, ragionevolmente vicina, quando non coincidente, con quella di governo. Il Presidente poteva essere l’una e l’altra cosa, ma anche solo una delle due.

A maggior conferma della non meccanica corrispondenza fra maggioranza presidenziale e maggioranza politica si prese esempio dalla Costituzione francese del 1946, fissando in sette anni la durata del mandato presidenziale (articolo 85). Un lasso di tempo, superiore di due anni rispetto alla durata della legislatura, che assicurava al Presidente di non dovere rendere conto a nessuno e, anzi, che avrebbe continuato ad operare anche quando la maggioranza che lo aveva eletto si sarebbe dissolta. Anche questo è un punto molto importante, per due ragioni.

La prima è che i Costituenti ragionarono sull’indipendenza del Presidente, ma non immaginarono la possibilità che egli si trovasse ad agire avendo a che fare con una maggioranza politica opposta e ostile a quella che lo aveva eletto. E la seconda, strettamente legata alla prima, è che quello schema ha manifestato qualche problema già negli anni dominati dalla guerra fredda, quindi con maggioranze di governo che non potevano spaziare per tutto quanto l’emiciclo parlamentare, mentre successivamente a quel periodo, nella stagione detta della “seconda Repubblica”, le difficoltà sono divenute assai evidenti, portando sulla scena presidenti esplicitamente ostili alla maggioranza parlamentare.

Con ciò non voglio sostenere, almeno non automaticamente, che taluno sia venuto meno ai propri doveri istituzionali, ma che la mutata condizione generale, il trasformarsi della Repubblica proporzionale in Repubblica maggioritaria, comporta una tensione notevole su equilibri disegnati per un altro mondo. L’elastico, insomma, rischia di schizzare via di mano, trasformando la sua virtù in potenziale pericolo.