La pensioni e la riforma che ruba il futuro

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La pensioni e la riforma che ruba il futuro

26 Marzo 2007

In attesa degli esiti del tavolo di concertazione tra governo e sindacati sui temi previdenziali, alcune considerazioni si impongono. Come noto, sindacato e sinistra (più o meno estrema) appaiono ferocemente contrari tanto all’allungamento della vita lavorativa quanto alla riduzione dei coefficienti di trasformazione (che determinano quanta parte della retribuzione verrà coperta dalla pensione). Specularmente, sono favorevoli all’eliminazione dello “scalone” previsto dal precedente governo, che il primo gennaio del prossimo anno determinerà un aumento istantaneo di tre anni nei requisiti minimi di età per il pensionamento. Sono altresì favorevoli all’aumento delle pensioni minime, ed all’introduzione di non meglio specificati “incentivi” per la permanenza al lavoro dopo la maturazione dei requisti pensionistici minimi.

Da qualunque angolo la si guardi, si tratta di posizioni che hanno la caratteristica comune di rubare futuro e risorse alle giovani generazioni. Riguardo le singole misure, è noto che lo “scalone Maroni” determinerà, a regime, un risparmio dell’ordine di 9 miliardi di euro. La sua eliminazione richiederebbe quindi di essere finanziata, auspicabilmente non con misure aleatorie quale la nuova/vecchia panacea chiamata “recupero dell’evasione fiscale”, che da circa un quarto di secolo figura sistematicamente tra le voci di entrata di ogni legge di bilancio italiana. La riduzione dello scalone, e il ripristino dell’età minima di pensionamento sotto i 60 anni determina anche effetti di palese iniquità sul piano redistributivo, perché aggiunge benefici ad una categoria di lavoratori già ampiamente beneficiati dalla riforma Dini del 1995, quella che nel primo programma dell’Unione doveva rappresentare la stella polare in materia pensionistica.

Infatti i lavoratori che, al momento di entrata in vigore della riforma Dini, avevano almeno 18 anni di contribuzione pensionistica continuano a godere dell’assai vantaggioso metodo retributivo, a tutto discapito delle generazioni più giovani. Secondo calcoli di Giuliano Cazzola, un dipendente privato che andrà in pensione di anzianità a 58 anni l’anno prossimo, e che quindi fruirà del metodo retributivo (che persisterà per i pensionamenti fino al 2015 circa), avrà coperto col proprio montante contributivo (il criterio che dovrebbe guidare il sistema in equilibrio attuariale) soltanto 15,4 anni, rispetto ad una speranza di vita (e di riscossione dell’assegno pensionistico) all’atto del pensionamento di 25,3 anni. Restano quindi 10 anni di pensione non coperti dai versamenti, che rappresentano il deficit posto a carico delle generazioni future. Nel caso di un lavoratore autonomo della stessa età, questa differenza è di quasi 20 anni. Nel 2015 lo scostamento sarà rispettivamente di 8,1 e di 13,8 anni. Questo dato ci porta al secondo mito della sinistra politico-sindacale: i leggendari incentivi. Che senso ha “incentivare” chi è già ampiamente premiato e beneficiato da un sistema perverso?

Riguardo l’aumento delle pensioni minime, è logico e verosimile che il loro adeguamento sia posto a carico della fiscalità generale, trattandosi di intervento a prevalente contenuto assistenziale e non previdenziale. Peraltro, il centrosinistra sta promettendo questa misura da alcuni anni, ed aveva irriso alla manovra attuata dal governo Berlusconi, che si era invece dimostrata puntuale (per tempi di esecuzione, i primi cento giorni di governo), certa (per individuazione della platea dei beneficiari) e concentrata su categorie meritevoli quali pensionati al minimo, invalidi civili, anziani e con redditi insufficienti: il famoso milione di lire per 13 mensilità erogato a circa 1.6-1.8 milioni di anziani. Intervento che il centrosinistra aveva definito “un bluff mediatico”.

Riguardo i coefficienti di trasformazione, essi sono i naturali discendenti della dinamica demografica del paese. La riforma Dini prevedeva la loro revisione a cadenza decennale, ma nel 2005 il governo Berlusconi preferì (colpevolmente) soprassedere, preferendo di fatto usare  il metadone del superbonus per quanti decidevano di posticipare l’andata in pensione pur avendo maturato i requisiti di anzianità. Eppure, l’adeguamento dei coefficienti di trasformazione rappresenta l’architrave del sistema contributivo. Non si può essere a favore del sistema contributivo e contrari alla revisione periodica dei coefficienti di trasformazione, è una contraddizione in termini. Eppure, sindacati e sinistra estrema proseguono nei loro niet, lasciando Prodi a trastullarsi con enunciazioni solennemente impotenti.

L’argomentazione ricorrente, per questa opposizione alla riforma di sistema, è che la revisione dei coefficienti danneggerebbe le generazioni future. Certo, se i contributi versati durante la vita lavorativa sono capitalizzati ad un tasso di equilibrio del sistema che determina pensioni future mediamente molto basse, non ci si può far molto. Ex ante, si può e si deve incentivare lo sviluppo della previdenza integrativa, mentre ex post si deve intervenire sui casi di maggiore sofferenza (cioè sulle pensioni più basse), ponendo il relativo onere a carico della fiscalità generale. Altro non si può fare, pena la bancarotta del sistema ed il caos. Ma, come noto, le prossime generazioni non votano, e quindi è politicamente più pagante fare demagogia qui e ora, a beneficio degli elettori di oggi. Magari con qualche melensaggine del tipo “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Errore. Nel lungo periodo ci saranno le prossime generazioni, i nostri figli ed i loro figli.

I correttivi per il riordino del sistema previdenziale sono noti da tempo a chi voglia guardare in faccia la realtà. Essi sono: l’aggiornamento automatico (cioè non discrezionale) e ad intervalli di tempo prefissati dei coefficienti di trasformazione, per adeguarli alle dinamiche demografiche del paese; auspicabilmente, il loro aumento per quanti decidano di restare al lavoro anche dopo la maturazione dei requisiti di pensionamento (ecco un incentivo razionale, che in quanto tale non verrà proposto); l’introduzione di penalizzazioni attuariali per chi lascia il lavoro prima di un’età minima, che dovrebbe essere superiore ai 60 anni. Ogni altro “correttivo” è un incentivo al furto intergenerazionale.