La permanenza della Grecia nell’euro è ormai solo una decisione politica
11 Febbraio 2012
Da mesi si dibatte su quale sia il destino della Grecia, se dentro o fuori l’euro e se in default (controllato) o meno. Cosa è successo è semplice: la Grecia è rimasta senza soldi e è riuscita a mettere d’accordo tutte le varie controparti (dall’Unione Europea, alla BCE, all’IMF a qualsiasi investitore sul mercato) sulla sua assoluta inaffidabilita’. Oramai i bluff del Premier Papademos non impressionano nemmeno i mercati, figurarsi i Merkozy, per il Financial Times è diventato argomento di scherno come la vita privata dell’ex Premier Berlusconi [1].
Ora siamo arrivati al redde rationem, dato che il 20 Marzo scadono 14.5 miliardi di euro in titoli di debit e il paese non può rimborsarli. E questa è solo la punta dell’iceberg, il paese è in una spirale negativa (il debito si sta avvicinando a due volte il PIL, che è calato quasi del 10% dal 2009, la disoccupazione è raddoppiata dal 2008 e non c’è nessun indicatore economico positivo nel paese) ed una classe politica nel caos, nonostante il nuovo governo tecnico.
L’immagine che viene in mente è quella di Padre Arsenios, capo di un monastero nel Monte Athos e capace di creare un crack finanziario da piu’ di un miliardo di Euro e far cadere il governo Karamanlis lavorando solamente due giorni al mese sul dossier. E tra l’altro il cliché del lavoratore greco, diciamo non troppo lavoratore, secondo l’OCSE sarebbe falso (un lavoratore Greco lavora più ore di un equivalente Giapponese apparentemente[2]).
La soluzione inizialmente prevista era di riportare la situazione sotto controllo tramite una ristrutturazione “volontaria” del debito e far rimanere la Grecia all’interno dell’euro. Lo status quo è insostenibile, il paese non potrà mai rimborsare lo stock di debito attuale, come paventato da Roubini in un famoso op-ed sul Financial Times[3], e il dibatto si era infatti spostato su come effettuare questa ristrutturazione senza causare perdite alla BCE (che ha sostenuto la liquidità dei titoli di stato greci), caos sul mercato dei derivati (visto che differenti definizioni di default potrebbero rendere inefficaci contratti di protezione stipulati da investitori privati, i famosi credit default swap) e soprattutto una forte recessione nel paese.
Il governo greco non si è aiutato molto. Il governo ha fornito bilanci pubblici sbagliati per non dire falsificati (evitando di menzionare deficit sostanziali, e va sottolineato che nè la BCE, nè l’Eurostat nè le agenzie di rating hanno mai sollevato il problema), dimostrato una incapacità cronica di mantenere le proprie promesse (il tanto atteso miglioramento dei conti pubblici è stato sempre rimandato) e ha causato molta incertezza con le sue richieste estemporanee (come di fare un referendum sui termini appena raggiunti con i partners europei).
La via di uscita più ovvia è trovare due accordi questa settimana, il primo con la cosiddetta yroika (l’Unione Europea, la BCE e l’FMI) per sbloccare una tranche di finanziamenti in grado di stabilizzare i flussi di cassa del paese (ovvero rimborsare i debiti in scadenza) e il secondo con gli investitori privati con i quali concordare una ristrutturazione del debito (ovvero quanto debito annullare in cambio di un nuovo tasso d’interesse sul debito rimanente). Le principali variabili che stanno complicando ambedue gli accordi sono da un lato il ritardo cronico del governo a rispettare gli impegni presi (il deficit non è calato quanto atteso, a causa dei ritardi del governo nel varare le riforme e della macchina burocratica del paese nel metterle in pratica) e dall’altro la percentuale del debito da annullare (che ha un impatto sostanziale sui conti economici di banche francesi e tedesche)
Questi due accordi sono necessari ma non sufficienti per uscire da una situazione che resta ancora molto grave. La Grecia ha vissuto anni d’oro, in cui era possible andare in pensione prima degli altri europei, evadere più tasse di altri europei, avere un’efficacia della macchina amministrativa da repubblica centrafricana (e quest’ultimo è un commento informale del FMI), perdere produttività industriale (che è un peccato capitale in un unione monetaria) e finanziare il tutto con soldi stranieri presi in prestito con una garanzia “implicita” diretta conseguenza dell’appartenenza aell’euro.
La ricetta d’austerità che si sta imponendo alla penisola ellenica viene criticata come prociclica (cioè dovrebbe aumentare la spinta recessiva invece di combatterla), e coloro che muovono questa critica fondano i propri argomenti sugli esempi precedenti in cui le ricette dell’FMI hanno pesato molto sui paesi debitori. Questa critica viene fatta da un lato da economisti convinti dell’assoluta incapacita’ della Grecia di essere competitiva all’interno dell’Euro (quindi suggerendo un ritorno alla Dracma e una svalutazione rispetto ai tagli della spesa pubblica come fa Roubini) o da keynesiani della domenica (che invece credono che ulteriore spesa a debito sia la soluzione invece della causa del problema).
Se la Grecia debba restare nell’euro a questo punto è una decisione politica, da fare in base alle possibilità reali che il paese avrà di mantenere le proprie promesse e di essere un partner stabile all’interno dell’Unione. Dall’altro canto l’equazione diretta tra tagli alla spesa e recessione non è così ovvia. La Lituania ha dimostrato che una gestione molto aggressiva della crisi (fondaata su una svalutazione del costo del lavoro tramite tagli alla spesa pubblica) può essere un’opzione non meno interessante[4]. Serve coraggio e visione sul futuro, e fino ad ora sono ambedue mancati, visto che il debito greco è un problema pari a 300 miliardi di euro, una somma gestibile sin dall’inizio della crisi europea.
[1] http://www.ft.com/cms/s/0/041cf0aa-50e8-11e1-8cdb-00144feabdc0.html#axzz1loYOkY9U
[2] http://www.economonitor.com/rebeccawilder/2012/02/08/the-unfounded-obsession-with-greek-minimum-wages/
[3] http://blogs.ft.com/the-a-list/2011/09/19/greece-should-default-and-abandon-the-euro/#axzz1YNL9mxwW
[4] http://www.cepr.net/index.php/publications/reports/latvias-internal-devaluation-a-success-story