La persona prima di tutto. Il “Tea Party”  secondo Matt Kibbe e Boyden Gray

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La persona prima di tutto. Il “Tea Party” secondo Matt Kibbe e Boyden Gray

10 Novembre 2010

Ho appena incontrato Matthew B. “Matt” Kibbe, economista “austriaco”, presidente di FreedomWorks, uno dei motori principali dell’onda “Tea Party”, e lì stretto collaboratore del deus ex machina di quel think tank, Richard Keith “Dick” Armey, già leader della maggioranza Repubblicana alla Camera dei deputati degli Stati Uniti dal 1995 al 2003. L’ho incontrato in Italia, Paese in cui è venuto per spiegare ai suoi cittadini, zavorrati dai commenti vuoi fuori tema vuoi pusillanimi della stampa italiana, cosa davvero è quell’enorme fenomeno di popolo, trasversale e conservatore, patriottico e radicatissimo, che il 2 novembre ha portato non solo al successo elettorale il Partito Repubblicano ma soprattutto la sua ala destra.

E così il pubblico italiano ha finalmente potuto udire da fonte autorevole la verità su un movimento che, per quanto noi si stenti a crederlo, non è la “cospirazione” ordita da certi potentati economici detronizzati e in cerca di rivincita, non è l’escamotage attraverso cui un partito politico in crisi profonda ha cercato di rifarsi una verginità, non è l’Halloween dei soggetti più bizzarri e impresentabili (come piace di continuo scrivere alla stampa nostrana a corto di parole e idee) che gli Stati Uniti conoscano. Kibbe ricorda infatti che se il movimento oggi si scaglia, e a ragione, contro il mal governo dell’Amministrazione guidata da Barack Hussein Obama, la sua ragion d’essere è però assai più profonda della semplice quanto comunque imprescindibile contestazione dell’attuale dirigenza Democratica. Anzi, il movimento mosse i primi passi che ancora alla Casa Bianca sedeva George W. Bush jr., Repubblicano Repubblicanissimo, allorché invece di scendere la spesa pubblica salì vorticosamente e quando per calmierare i disastri provocati dal sistema dei “mutui allegri” che innescarono la crisi economico-finanziaria globale quel governo, Repubblicano Repubblicanissimo, varò i primi bailout che gravano sempre ingiustamente sulle tasche dei contribuenti.

Cose che da noi fatichiamo sette camicie per comprenderle ma che invece si spiegano con quanto ha detto bene agl’italiani l’economista Oscar Giannino, direttore di quel Chicago blog che, partner dell’Istituto Bruno Leoni di Torino, ha l’8 novembre ospitato a Milano in conferenza pubblica Kibbe e C. Boyden Gray, già Ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea e dai tempi di Ronald W. Reagan (1911-2004) insider acuto del mondo Repubblicano. La reazione popolare che ha generato i “Tea Party” è una squisita questione di diritto naturale puro e semplice, e come tale iscritta del DNA stesso degli americani in quanto americani. I “Tea Party”, cioè, non si spiegano come rivolta partigiana a questa o a quell’Amministrazione. Sono invece l’insorgenza di una nazione, anzi, meglio, quella della sua coscienza di fronte al travalicamento palese e insopportabile di un confine che nessuno ha il diritto, mai, di oltrepassare, figuriamoci, fra tutti, lo Stato burocratico, spendaccione, parolaio, guardone. Vi è insomma un che di sacrale nel modo in cui gli americani montano la guardia giorno e notte su questa frontiera, sorvegliando varchi, guadi, accessi e brecce.

Per questo limes gli americani sono del resto disposti a dar battaglia. Accadde così quel giorno a Boston in cui nacque il primo “Tea Party” più di due secoli or sono, è stato così sempre lungo la storia degli Stati Uniti, è così ancora oggi che i “Tea Party” son tornati. Lo Stato, dicono chiaro gli americani, esiste per servire i cittadini, non il contrario. Ha quindi misure ben definite, ruoli limitati, spazi sorvegliati entro cui muoversi in punta di piedi e con gran rispetto. Non è onnipotente, a esso non spetta decidere. Quel che fa lo deve e lo può fare solo su delega esplicita dei suoi azionisti di riferimento, i cittadini. Per meno di questo, val la pena di buttare per aria il tavolo onde riordinarlo secondo ragione e misura. Qualunque sia il partito al potere.

Ora, una delle scempiaggini ricorrenti su un fenomeno come quello dei “Tea Party” statunitensi di oggi è che essi siano “semplicemente” una protesta di natura fiscale, tipica insomma di gente dal braccino corto e dal cuore duro. Follie, che le si dicano per simpatia o per critica, tanto da destra quanto da sinistra. Anzi, peggio. Incapacità cronica di comprendere adeguatamente la natura vera delle cose. Pare, cioè, a molti che battaglie di questo tipo siano, se va bene, di retroguardia. Importanti, sì, cioè, ma assolutamente secondarie. In cima all’ordine del giorno, dicono taluni, dovrebbe e deve stare altro: valori e princìpi, etica e morale. Anzi ancora, per taluni di quei taluni, forse forse tutta questo gran vociare contro lo Stato che sì bene ci coccola e ci mantiene non è poi nemmeno tanto giusto…

Negli Stati Uniti, invece, si pensa diversamente. Si pensa che la libertà vera sia quella d’impegnarsi nella realtà storica anzitutto giocando tutta la capacità di responsabilità personale. Si pensa che la parabola evangelica dei talenti sia una cosa straordinariamente seria, là dove dice che a ognuno di noi viene dato (dal Creatore, come sta ben scritto nella loro Dichiarazione d’Indipendenza) un capitale da investire, adoperare, manovrare e mettere a frutto, il quale è diverso per ciascuno, cioè a ciascuno il suo (per mistero insondabile sempre appannaggio esclusivo del Creatore di cui sopra), ma soprattutto che al termine della ventura di cosa di tale dote iniziale si sia fatto qualcuno (sempre Lui, sempre quel Creatore) chiede conto. Si pensa che l’uomo sia stato creato (Dichiarazione d’Indipendenza) in modo tanto unico da essere dotato di una dignità che lo rende di poco inferiore agli angeli e cristallinamente simile a Dio, tale per cui non esiste alcun soggetto all’uomo subordinato o da lui ideato che possa a un certo punto pensare d’invertire le parti per farla da padrone. Si pensa che l’autentica uguaglianza fra gli uomini sia l’essere stati fatti tutti così dal Creatore, cioè ognuno diverso e chiamato a rispondere del proprio equipaggiamento iniziale,  non certo di quello degli altri.

Si pensa cioè che l’uomo sia l’essere più mirabile del creato e per ciò stesso il suo steward, il custode e la sentinella sempre vigile che tutto usa ma che da nulla è usato, al massimo ponendosi a servizio volontario e guardia nobile del Creatore. Insomma si pensa che il governo delle società, che è solo uno strumento generato dall’uomo onde assicurarsi meglio la possibilità di realizzare i fini intrinseci alla natura umana descritta come sopra, viola le regole tutte le volte che esagera trasformandosi in un Moloch onnivoro.

Gli americani hanno scritto non a caso nella propria Dichiarazione d’Indipendenza che fra i diritti inalienabili dati a loro e a tutti gli uomini dal Creatore vi è quello di perseguire concretamente, secondo modi responsabilmente liberi e ragion pratica, la felicità, non certo un astratto diritto a essa, giacché la felicità ‒ sanno gli americani ‒ non è quel che dice lo Stato, nemmeno la Dichiarazione d’Indipendenza, quanto una condizione di pienezza umana la cui fonte viene da ben altro che dalla realtà creata. Quando il dispotismo pagano dello Stato infrange sacrilegamente questo confine, l’americano reagisce per difendere la propria dignità di essere creato a immagine e somiglianza politiche di Dio.  La battaglia dei “Tea Party”, oggi come ieri, è allora la battaglia della libertà dei figli di Dio sempre. Oggi l’aggressione alla dignità umana si compie attraverso una esagerata pressione fiscale che spoglia la persona onde soggiogarla con facilità al nuovo faraone? E allora la rivolta sarà eminentemente di natura fiscale. La possibilità di ogni e qualsiasi affermazione di principio morale e di valore etico, dice l’americano vessato dal fisco ingiusto, dipende, hic et nunc, da quella. Forse che il diritto di resistenza medioevale fosse diverso?

Ecco, questo gl’italiani, persino i simpatizzanti dei “Tea Party” d’Oltreoceano fanno ancora fatica a comprenderlo bene. Ancora sfugge loro che sfidare l’immoralità del dispotismo lottando contro una spesa pubblica insulsa ed esagerata e a favore della vita umana nascente siano solo fronti  diversi della medesima battaglia. Nell’una sta l’altra, l’una è condizione pratica dell’altra. I “Tea party” oggi, come il conservatorismo statunitense sempre, sono semplicemente la legittima difesa della persona umana attaccata nella sua dignità, dal ventre della madre al conto in banca. Non è che i vandeani “Dio, patria e famiglia” abbiano iniziato la propria benedetta rivolta contro l’orrore terroristico giacobino partendo da altro che non fosse la protesta fiscale…

E sennò come si spiegherebbe che adesso, dopo la vittoria del 2 novembre, Ronald Ernest “Ron” Paul dal Texas, l’eroe “austriaco” dell’antistatalismo, l’uomo che abolirebbe domattina al Federal Reserve, sia in pole position per la guida dell’House Subcomittee for Domestic Monetary Policy and Technology, dipartimento della Commissione Servizi finanziari della Camera dei deputati statunitense che (soprattutto in mano a uno come Paul) potrebbe decidere riforme, anche radicali, della politica monetaria americana? Non vi siete emozionati? E allora provate a farlo pensando che per un 75enne libertarian sfegatato così l’organizzazione “The Ron Paul Tea Party”  sta vedendo se riesce entro il 16 dicembre prossimo a trovare 100mila donatori che versino $100 ciascuno per la causa. Quale? Quella del lancio di Paul nella corsa per la Casa Bianca del 2012. Pensate su quali specchi si arrampicherebbero allora i commentatori di casa nostra onde cercare d’inquadrare nelle proprie quattro frasi fatte codesto popolarissimo ginecologo prestato alla politica che non solo ritornerebbe subito all’oro come moneta, ma che dal 2005 è pure famoso per avere reintrodotto alla Camera il “Sanctity of Life Act”, la proposta di legge radicalmente antiabortista che pencolava da dieci anni…

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk