La più grande illusione di Obama è aver creduto alla “Comunità Internazionale”
09 Febbraio 2010
Nel mondo reale, opposto a quello che il presidente Nicolas Sarkozy chiama il “mondo virtuale” del presidente Barack Obama, l’America si trova a fronteggiare la realtà dell’intransigenza e dell’aggressività iraniana; la decisione con cui la Cina persegue i propri interessi, nazionali, locali e globali; l’ambizione della Russia nel tornare a controllare i suoi vicini; il rifiuto dei paesi arabi di accettare ogni ragionevole accomodamento dei tanti che i vari governi di Israele abbiano proposto; le mire siriane sul Libano; e i progetti di Hugo Chavez sui paesi più poveri dell’America latina. Il graduale ritiro dell’America contemplato dall’agenda estera di Obama avrà inesorabili conseguenze: quando gli ormai ex alleati vedranno l’ombrello americano ritirarsi, dovranno venire a patti con coloro dai quali li stavamo difendendo. Se Obama continuerà e negare l’evidenza, il venir meno delle alleanze e il rafforzamento degli avversari a Mosca, Pechino, Teheran, Caracas e altrove continuerà, fino a quando non verremo svegliati da un cataclisma.
Forse avrei dovuto sottolineare il mio saggio “Come avete celebrato il primo anniversario del secondo avvento?”, un’eventualità che per secoli ha confuso i teologi. Sei mesi fa, quando stavo pensando a cosa scrivere, il presidente Obama si trovava a metà della sua traiettoria – traiettoria discendente – da divinità a comune mortale. Ma adesso che siamo giunti all’ultimo giorno del suo primo anno, anzi al momento preciso in cui la magia è svanita e il suo carisma si è raffreddato, in cui il Massachusetts – il più blu dei blu (dal 1984, la CBS introdusse mappe politiche che colorano in rosso gli stati a controllo repubblicano, in blu quelli a controllo democratico; il modello è stato adottato praticamente da tutti, ndt) – sta addirittura pensando di eleggere un repubblicano semisconosciuto al seggio senatoriale tradizionalmente riservato alla famiglia Kennedy e ai suoi funzionari (cosa effettivamente avvenuta, ndt), in cui la popolarità di Obama è scesa al 46 per cento, e in cui il suo rateo di disapprovazione è il più alto di sempre ad appena un anno dall’elezione, non c’è più alcun bisogno da parte mia di descrivere e spiegare una così clamorosa caduta.
Così, invece di parlare di dove la sua agenda di politica interna lo ha portato, propongo di parlare di dove la sua agenda di politica estera ha portato tutti noi. Dopo un anno di ininterrotte critiche da destra, la politica estera di Obama ha assunto un nuovo look, ricevendo una pioggia di commenti favorevoli, dopo il suo discorso di accettazione del Nobel, a Oslo, in cui il presidente ha riconosciuto l’esistenza del male, l’importanza dell’America nel mantenere la pace, la necessità, a volte, di ricorrere alla guerra. Ciò ha portato ad alcuni discorsi entusiastici circa una nuova dottrina obamiana variamente descritta come una sorta di realismo cristiano, o di tragico Niebhurismo (teologo americano sostenitore dell’idea secondo cui la politica e la diplomazia devono ispirarsi alla fede cristiana, ndt), o un misto di realismo e idealismo. Mi dispiace far piovere su questa parata, ma trovo difficile unirmi all’entusiasmo generale. E’ bene avere un presidente che dice pubblicamente che Gandhi non avrebbe fatto molto bene contro Hitler, ma può essere questo un grande passo avanti filosofico? Per un presidente degli Stati Uniti? E’ il tipo di discorso che faresti con i tuoi compagni matricole il primo anno d’università in camerata, prima di metterti a dormire.
Il pacifismo è una cosa seria per un ingenuo adolescente, o per qualche setta eccentrica la quale però, occorre osservare, esiste perché vive accanto a persone non eccentriche che rigettano il pacifismo e lottano per mantenere quelle piccole sette vive, e libere. E’ vero, Obama ha offerto una difesa della guerra. Ma ha annunciato il dislocamento di atri 30 mila militari in Afghanistan – una guerra ereditata che lui stesso ha definito “interesse nazionale vitale” – arrivando a questa decisione soltanto dopo tre mesi, durante i quali ha ingaggiato un’aspra lotta con il vicepresidente e con la propria coscienza prima di risolversi a dare ai suoi generali forze adeguate. Cos’altro può fare il leader di una nazione seria, che difendere la necessità della guerra? Come può fare altrimenti un uomo che si è candidato alla carica di comandante supremo? Quale leader di una nazione seria ha mai sollevato il pacifismo al rango di questione di politica estera? In effetti, il semplice fatto che il riconoscimento del male e il rifiuto del pacifismo da parte di un presidente ci colpisca come qualcosa di nuovo e sorprendente, ci dice molto, e niente di buono, sulle basi dalle quali il presidente opera: un confuso internazionalismo. E’ questo quello che ha ispirato Obama nel suo primo anno alla Casa Bianca. E ricordate. Dopo la sua breve incursione nell’ovvio – in cui ha difeso la necessità della guerra, e riaffermato il ruolo dell’America nel proteggere l’ordine mondiale – Obama si è sentito in dovere di spendere la seconda parte del suo discorso ritornando ai discorsi internazionalisti liberal che gli sono valsi quel fatuo premio da quella esageratamente elegante, ma poco preparata giuria.
Un’entità fantasiosa. E quali sono le sue linee guida? Quale l’essenza della sua politica estera?
Ci sono molti posti dove può essere trovata – il discorso del Cairo, le altre tappe del tour delle scuse – ma questa essenza è stata espressa con estrema sintesi nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite, dal quale affiorò il suo modo di vedere ciò che muove il panorama internazionale: “In un’era in cui il nostro destino è in comune, il potere non è più un gioco a somma zero. Nessuna nazione può o deve tentare di dominarne un’altra. Nessun ordine mondiale che ponga una nazione o un gruppo di nazioni sopra un altro, può avere successo”. E “allineamenti nazionali che affondano le radici nelle vestigia di una guerra fredda terminata da lungo tempo” non hanno senso “in un mondo interconnesso”.
Da dove si può iniziare? Dalla frase secondo cui il potere non è più un gioco a somma zero? Andatelo a dire a chi manifesta per le strade di Teheran. Andatelo a dire alle Tigri Tamil, o agli stati baltici da poco tornati liberi. Nessuna nazione dovrebbe tentare di dominarne un’altra? Magari, ma non si tratta di altro che di utopie da giovinetto. Il mondo è uno stato di natura hobbesiano in cui la lotta per la sopravvivenza è l’autentica essenza della vita internazionale. Nessuna nazione può dominarne un’altra? Semplice non-sense. Come può un uomo di tale intelligenza – per di più presidente degli Stati Uniti – anche solo permettersi di dire una cosa del genere? Ma la frase più inquietante è quella in cui “le vestigia di una guerra fredda terminata da lungo tempo” vengono definite vecchie e senza senso. Quelle vestigia costituiscono l’attuale linea di demarcazione tra il mondo libero e quello non libero, tra democratici e comunisti, tra Occidente e un Impero del Male che ha soffocato la libertà in metà Europa e in un arcipelago di lontane colonie che va dal Vietnam a Cuba al Nicaragua.
Si tratta di una linea di demarcazione per nulla accidentale. Eppure, al posto di quelle cosiddette vestigia, Obama vuole portare in auge nel Ventunesimo secolo un mondo nuovo di intese universali per il quale gli Stati Uniti dovranno fungere da promotori, guaritori, interlocutori, esempio morale – che dovrà essere dato in primo luogo dall’uomo che sta al di sopra di tutto, “cittadino del mondo” come lui stesso si è definito a Berlino. In effetti, è stato a Berlino, in quell’indimenticabile e bizzarro scenario, che il candidato Obama ha offerto il quadro più chiaro di come egli veda il mondo, quando ha affermato che il muro di Berlino crollò perché “non c’è sfida più grande per il mondo, che essere unito”.
Unito? Sicuramente, il mondo era diviso almeno in due: quelli che per anni e anni tentavano instancabilmente di buttar giù quel muro e quelli che in quegli stessi anni fecero di tutto per farlo restare in piedi – cioè, quelli che lo eressero. Il muro è venuto giù non a causa di qualche kumbaya (celebre canto pacifista afroamericano, ndt) che esortava alla pace tra i popoli, ma perché gli Stati Uniti, agendo spesso unilateralmente, e certamente con solo pochi alleati, a un costo molto alto in due guerre assai calde (Corea e Vietnam) e una guerra fredda che minacciava costantemente la distruzione nucleare, persistette nel combattere senza tregua e contenere e quindi far crollare l’impero sovietico.
Solo qualcuno che ritiene che la Guerra Fredda venne vinta da una qualche manifestazione di umanità al servizio di qualche particolare principio universale può credere che quelle forze fantastiche posseggano la chiave della sicurezza e della pace oggi. Ma Obama lo crede. Al centro di questa fantasia internazionalista c’è la convinzione che una “comunità di nazioni” con le sue regole comuni sia l’approdo definitivo della storia.
Regole comuni? I talebani hanno una concezione del bene assai diversa dalla nostra. Così anche, per esempio, gli arabi del Sudan settentrionale dai cristiani e dagli animisti sudanesi del meridione del paese, tra i quali è in corso da molti anni una guerra civile. Per non dir nulla del Sud e del Nord di questo Paese (si intendono gli Usa, ndt) nel 1860. E anche se tutti hanno le stesse aspirazioni, non è detto che da ciò debba discenderne armonia: risorse, ricchezze, terra, potere non sono infiniti; la gente lotta per guadagnare quel che altri già hanno. Di nuovo, stiamo parlando di considerazioni elementari. Scontri sui valori e lotte per la supremazia sono una costante nella storia dell’umanità, che porta con sé un’altra costante – conflitti e guerre. Eppure, contro tutto ciò, al centro del mondo di Obama c’è quel che lui chiama instancabilmente la “comunità internazionale”. La chiama a “ergersi” contro la Corea del Nord; la chiama a limitare le ambizioni nucleari dell’Iran; la chiama a esaudire il suo sogno più grande, quello di un accordo universale sul disarmo atomico. Ed è a questa entità fantasiosa, per guadagnarne l’approvazione e il supporto, che Obama offre ostentazioni di virtù come chiudere Guantanamo e ripudiare gli interrogatori energici ai capi dei terroristi. (Fine della prima puntata, continua…)
Tratto da Heritage Foundation
Traduzione di Enrico De Simone