La polemica sull’ora di religione è tutta politica ma pone problemi anche alla Chiesa
13 Agosto 2009
Dalla discussione sulla sentenza del Tar del Lazio che priva i docenti di religione cattolica della possibilità di partecipare agli scrutini e di determinare il credito scolastico degli studenti emerge sia una perdurante confusione sulla laicità nel mondo politico sia alcune incertezze di impostazione da parte della gerarchia ecclesiastica. Va prima di tutto sgombrato il campo da una questione secondaria, per poi poter ragionare sulla vera sostanza del problema. Secondo il Tar gli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica godrebbero di un vantaggio rispetto a chi non si avvale o a chi si avvale di insegnamenti alternativi, in quanto i primi hanno il loro docente che interviene allo scrutinio e gli altri no. A parte quanto afferma il Concordato sulla particolare importanza della religione cattolica data la storia del nostro Paese, bisogna osservare che per ovviare alla “ingiustizia” si può pensare di aumentare l’offerta formativa per i non avvalentesi dell’insegnamento della religione cattolica, strutturandola maggiormente, in modo che in futuro anche costoro abbiano il loro “docente” presente allo scrutinio. Per chi invece decide di non avvalersi di niente e di riposare un’ora il problema non si pone. I docenti di religione cattolica sono pienamente inseriti nella programmazione e nell’attività didattica del consiglio di classe, solitamente insegnano alla maggioranza degli studenti della classe e quindi non si vede perché non debbano essere considerati docenti a tutti gli effetti, compreso il momento della valutazione finale.
Ma è evidente a tutti che il vero problema non è questo, ma quello della laicità della scuola pubblica. Su questo tema si notano notevoli difficoltà del mondo politico ed anche parecchie incertezze del fronte ecclesiastico. La domanda fondamentale è la seguente: in cosa consiste l’importanza dell’insegnamento della religione e della religione cattolica in particolare nella nostra scuola? Di solito a questa domanda si risponde dicendo che non sarebbe possibile comprendere la storia, la letteratura, l’arte italiana ed europea senza conoscere il cristianesimo e, per l’Italia, il cattolicesimo. L’argomentazione è corretta ma insufficiente. In molti paesi europei che provengono dalla stessa storia la religione cristiana o cattolica non gode degli stessi vantaggi. Inoltre i diritti che provengono dal passato possono non essere più sentiti come tali. Infine, davanti al dogma della laicità come neutralità, l’idea di insegnare la religione affinché i nostri giovani riescano a leggere la facciata di una Chiesa o una statua di Michelangelo mostra tutta la sua debolezza. Non è un argomento sbagliato, ripeto, è solo debole.
Il vero motivo della presenza dell’insegnamento della religione cattolica è che nel cristianesimo c’è un bagaglio di verità sulla persona umana e sulla convivenza umana, una riserva di energie spirituali e morali, una motivazione così alta alla fraternità e alla solidarietà senza delle quali la società fatica a reggere perché essa ha bisogno di presupposti che non sa produrre né ripristinare quando vengono a mancare. Non si tratta solo di intendere il cristianesimo come collante sociale e religione civile. Anche questo sarebbe riduttivo, alla pari di spiegare l’utilità dell’insegnamento della religione cattolica come propedeutica al romanico e al gotico. In quel caso allora bisognerebbe insegnare etica cristiana e non religione cattolica. Quest’ultima deve essere insegnata per la verità che essa contiene, non solo per la verità morale, ma prima di tutto per la sua verità religiosa. E’ infatti solo se può esprimere la sua verità religiosa che il cattolicesimo sviluppa anche i suoi insegnamenti morali e reca un beneficio alla società.
La vera laicità dovrebbe riconoscergli questo, non per motivi confessionali ma per motivi di ragione.
Che la politica oggi possa fare questo è piuttosto arduo, anche se non impossibile. Arduo perché richiede che essa – la politica – adoperando la ragione si metta in grado di valutare la religione e, cosa ancora più ardua, di distinguere tra le religioni. Un criterio razionale potrebbe per esempio essere questo: alla religione che meglio conferma l’incondizionatezza della persona, sempre fine e mai mezzo come diceva anche Kant, assegno un riconoscimento pubblico, ad una che no no. Ad una religione che conferma i diritti umani e l’uguaglianza tra uomo e donna assegno un riconoscimento pubblico, ad una che no no. Ad una politica che adoperasse in questo modo la ragione apparirebbe chiaro che l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e la piena partecipazione dei docenti di questa materia alla vita educativa del consiglio di classe è una risorsa da conservare con gelosia. Se poi in futuro si potrà organizzare la stessa cosa per evangelici o appartenenti alla religione ebraica ben venga.
Ciò che stupisce è che il vescovo Coletti, presidente della commissione della CEI che si occupa di questi problemi, sia anche lui ricorso solo all’argomento storico e culturale e non abbia adoperato l’argomento della verità. La CEI dovrebbe dire: giudicateci dalle verità che diciamo, ce n’è qualcuna che va contro la dignità della persona? Questo è il motivo per cui il cattolicesimo rivendica un ruolo pubblico e non solo il fatto storico della sua presenza nel nostro passato. Se Benedetto XVI continua a dire che il cristianesimo accetta di essere esaminato dalla ragione perché è la religione della Verità (e della Carità), perché il vescovo Coletti rivendica questo ruolo pubblico solo in virtù del merito di aver ispirato Bernini o Caravaggio? Sotto forse c’è un altro problema: se si ricorre a questi argomenti che qui suggerisco, poi bisogna però veramente insegnarli nell’ora di IRC: Insegnamento della Religione Cattolica e non varia umanità.