La politica dovrebbe appoggiare Monti se abolisce il valore legale della laurea
31 Gennaio 2012
C’era una volta il titolo di studio. Nel tempo in cui l’Università era una cosa seria e diventare dottore garantiva merito e formazione. C’era una volta la fatica dello studio, la trasmissione dei saperi, il rispetto dell’istituzione accademica, la preparazione dei grandi professori e un lavoro garantito ai più bravi e meritevoli. C’era il tempo in cui fare l’Università significava un salto di status sociale e l’affrancamento dalla famiglia il prima possibile. Poi è arrivata l’università di massa, il diritto alla laurea garantito a tutti, è arrivato il 3+2, che ha significato innanzi tutto uno spacchettamento della formazione in crediti da accumulare, come i bonus dei videogames, e dove un sistema di pletorica frammentazione dei percorsi di studio è servita per lo più a produrre una scellerata proliferazione delle cattedre e degli incarichi per "piazzare" il docente o il tecnico di turno. Oggi l’Università – come la scuola – si affida esclusivamente ad una logica quantitativa: quanti laureati, di quanti anni, quanto a lungo, con quanti crediti, con quanto tempo di attesa prima di trovare una prima occupazione. E ha perso completamente l’aspirazione qualitativa: quali laureati, con quale preparazione, in quale università, con quali professori e soprattutto quale merito.
Ci siamo fatti promotori per molto tempo di una rivoluzione copernicana dell’Università, che tornasse, finalmente, a dare il giusto merito al merito. Che valutasse i laureati sulla base delle loro conoscenze, che valutasse i professori sulla base delle loro competenze e che valutasse le università sulla base della qualità della loro offerta formativa. In quest’ottica non abbiamo avuto il timore di inserire in un dizionario corporativo e stantio la parola "eccellenza", affinché venisse riconosciuta non come elemento di disuguaglianza ma come elemento di distinzione, la parola "competizione", convinti che solo attraverso la libera competizione delle università può nascere un virtuoso modello di istruzione, la parola "selezione", per consentire agli studenti e alle loro famiglie di compiere una scelta libera e consapevole sulla qualità dell’università a cui iscriversi.
Per questo sentir parlare oggi di abolizione del valore legale del titolo di studio dal governo in carica ci fa pensare da una parte ad un’occasione mancata e dall’altra ad un’opportunità che si apre. Tralasciamo le "occasioni mancate", su cui non val la pena rimuginare, e concentriamoci sulle speranze.
Qualche giorno fa, in un concitato Consiglio dei ministri, Mario Monti e il ministro della Pubblica istruzione Profumo hanno avanzato l’ipotesi, trovando le resistenze di molti ministri. La questione posta all’ordine del giorno riguardava, appunto, il fatto che oggi ogni laurea conseguita in una qualsiasi università italiana abbia lo stesso valore, soprattutto ai fini dei pubblici concorsi. Nelle intenzioni del governo, mai raggiunte neanche col decreto semplificazione, c’era la volontà di abolire il peso del voto di laurea nei concorsi, abolendo anche la differenza fra la laurea breve (3 anni) e magistrale (+ 2), facendo pesare le lauree secondo la valutazione dei diversi atenei che fatta dall’Anvur, l’agenzia per la valutazione delle università, e assegnando valore anche ai master, alle specializzazioni, alle esperienze lavorative, soprattutto quelle fatte all’estero. Questo primo provvedimento – per ora, dicevamo, limitato alla equipollenza tra titoli – avrebbe rappresentato il primo passo verso l’abolizione del valore legale della laurea, un provvedimento volto ad allineare l’Italia al sistema universitario statunitense e inglese, dove l’autonomia universitaria, e quindi la libertà di scelta, è molto più ampia rispetto al resto d’Europa. Apriti cielo! Metà governo ha tuonato contro, tanto da costringere Monti ad un dietrofront e ad annunciare una sorta di consultazione in Rete per capire come la pensano sulla questione i diretti interessati (il che già ci fa pensare che fine farà la proposta).
Due giorni fa, tornando parzialmente sui suoi passi, il ministro dell’Interno Cancellieri ha ricalibrato il tiro, dicendosi «assolutamente favorevole» all’abolizione del valore legale del titolo di studio, ma «a due condizioni: con una valutazione seria delle università e pari opportunità perché tutti possano accedere alle università più prestigiose, per esempio con borse di studio». La pietra miliare da cui partiva il ministro è quella del merito: «Se premiamo il merito diamo speranze ai giovani delle proprie forze. Il merito è la strada che li porterà alla loro realizzazione». Per non parlare del fatto che abolire il valore della laurea sarebbe un modo attraverso cui riformare davvero l’intero sistema burocratico-amministrativo dello Stato, dei Ministeri, degli Enti pubblici, che dovrebbero ribaltare le loro logiche di selezione, valutazione e quindi carriera del personale.
Temiamo che le nobili iniziative del governo in carica e le coraggiose dichiarazioni dell’ex prefetto si infrangeranno, come già avvenuto, innanzi tutto contro le resistenze interne. E certo, se il governo Monti arrivasse ad approvare una legge che abolisce il valore legale del titolo di studio, molto ci sarebbe da dire sulla natura tecnica dei suoi provvedimenti. Eppure ci piacerebbe che in questa occasione si sentisse forte e chiara la voce della politica e non solo "per dire no". Vorremmo che si facessero avanti tutti coloro che, in Parlamento, sui giornali, nelle aule universitarie, si sono fatti promotori nel passato di tale iniziativa e che trovino il coraggio e l’occasione anche solo di promuovere e appoggiare un’azione politica davvero epocale. Sarebbe davvero un bel segnale.