La politica fiscale ed economica di Tremonti? Il salvagente contro la crisi
08 Ottobre 2009
Gli effetti della crisi sulla finanza pubblica dei paesi membri è stata ufficialmente all’attenzione della Commissione europea. Per 11 di essi la Commissione aveva già avviato la procedura per deficit eccessivo lo scorso anno. Per altri 9, inclusa l’Italia, è stata avviata appena due giorni fa. Sono così 20 su 27 i paesi della UE che hanno sforato i parametri del Trattato di Maastricht a causa della crisi. Un verdetto già noto.
È vero, tuttavia, come ha osservato il nostro Ministro dell’Economia, che l’Italia ha fatto meglio di molti altri. Nel 2009 la media europea del rapporto deficit/Pil è stato pari al -6,0%, mentre nel 2010 è stato pari a -7,3%. Per l’Italia lo sforamento è stato del -5,3% e del -5,0% rispettivamente. Tra i paesi meno virtuosi vi sono il Regno Unito (-11,5% nel 2009 e -13,8% nel 2010, ben 4 volte superiori ai vincoli di Maastricht), la Spagna (-9,5% e -9,8%), la Francia (-8,2% e -7,0%), e la Germania (-3,9% e -5,9). Per inciso negli USA lo stesso rapporto è stato pari al 11,1% ed al 14,3%. L’Italia nel 2009 ha il rapporto deficit/Pil più basso della UE (se si escludono Finlandia, Lussemburgo, Malta e Cipro). Se lo consideriamo al netto del ciclo, secondo la Commissione europea, il rapporto deficit/Pil italiano è stimato nel 2009 in 2,7%, tra i pochissimi che hanno rispettato i vincoli europei.
Se passiamo al rapporto debito/Pil nell’ultimo biennio l’aumento nella UE-27 è stato pari al 17,8%. Per l’Italia l’aumento è stato pari al 10,3%.
Va osservato, inoltre, che se nella media europea circa la metà dell’aumento della crescita del rapporto è dovuto al disavanzo per fare fronte alla crisi (interventi a favore del settore finanziario ed industriale) e l’altra metà agli effetti negativi della recessione (quando il denominatore del rapporto debito/Pil è negativo il rapporto stesso cresce; a questo si aggiunge la diminuzione del gettito dovuto alla crescita negativa ed alla inelasticità delle imposte). In Italia invece (unica in Europa) la totalità dell’incremento del rapporto è imputabile solo agli effetti della crescita negativa. Questo significa che il nostro Paese, non solo è riuscito contenere la crescita della spesa primaria nel biennio, ma non ha dovuto iniettare riscorse aggiuntive nel sistema per salvare le banche o sostenere le imprese.
Ha contribuito positivamente che il nostro sistema bancario non sia stato colpito dal fenomeno dei titoli tossici e che il nostro Ministro sia stato capace di tenere fermo il cordone della borsa, senza tuttavia lesinare risorse per sostenere le classi sociali più colpite (alzando al massimo il livello delle risorse disponibili per la cassa integrazione).
La verità è che la politica fiscale ed economica messa in atto dal Tesoro per affrontare la crisi, certamente grazie anche alle condizioni specifiche e strutturali che caratterizzano il nostro Paese, sembra aver funzionato più che altrove. I conti pubblici hanno tenuto, il sistema bancario è in Europa tra i meno colpiti dalla crisi finanziaria, le imprese sono in difficoltà, ma non mancano gli strumenti di sostegno, e i disoccupati possono fare ampiamente ricorso alla cassa integrazione. Tutto ciò senza rischi di neo-statalismo.
Esaminiamo brevemente le politiche attuate con maggiore dettaglio. Innanzitutto, nel 2008 si è riformata la Finanziaria. Ciò ha permesso di “mettere in sicurezza” i saldi di bilancio per il triennio successivo. Chi non ricorda i “tormentoni” della stangata o delle manovre e manovrine che si succedevano ogni anno prima e dopo l’estate? L’avere costruito un rigido percorso triennale ex ante ha rappresentato quindi una novità di rilievo. Non solo da punto di vista psicologico (delle aspettative), ma anche dal punto di vista sostanziale.
Se i vari “partiti della spesa” hanno più occasioni annuali per fare la questua, la spesa evidentemente si incrementa di più di quanto preventivato nei Dpef (triennali). Se invece i “paletti” sono posti all’inizio, senza troppe occasione di ridiscuterli strada facendo, è più facile mantenere il timone del bilancio ben fermo e raggiungere gli obbiettivi indicati.
Sul fronte del sostegno ai risparmiatori, alle banche ed alle imprese si è agito con indubbia efficacia tramite il sistema delle garanzie. Garanzie sui depositi bancari, disponibilità a prestare denaro per rafforzare il capitale delle banche nel caso ne avessero bisogno (Tremonti Bond), garanzie CDP e SACE per le PMI attraverso il sistema bancario, nuovi fondi di garanzie CDP per le opere pubbliche. Questi interventi hanno avuto il merito di agire sulle aspettative; meccanismi “conformi al mercato” non hanno richiesto interventi invasivi da parte della mano pubblica, come invece è avvenuto in molti altri paesi, soprattutto in quelli anglosassoni. Inoltre, poiché sono stati attivati in misura minore di quanto atteso, hanno pesato poco sul debito pubblico. Hanno però avuto un ruolo cruciale sulle formazione delle aspettative, rassicurando nel momento in cui l’incertezza era maggiore e la garanzia potenziale più necessaria.
Sul fronte degli stimoli alla domanda si è utilizzata, e molto più si utilizzerà nel futuro, l’ampio stock di risparmio postale attraverso la riforma della Cassa depositi e prestiti. Nel Piano industriale, recentemente approvato dal Cda della Cassa, sono state messi a disposizione oltre 50 mila miliardi di euro per il sostegno all’economia. Si tratta di un impegno equivalente a quello messo in campo dalla consorella tedesca KFW, conosciuto come il grande “Crisis Offensive Plan” voluto dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel.
Anche nel caso del Piano CDP si tratta di interventi che non pesano sulla finanza pubblica. In che cosa consistono? Garanzie per le grandi opere e per le PMI, liquidità al sistema bancario, finanziamento alle opere di interesse pubblico generale con temporalità estese (ovvero oltre a quelle normalmente fornite dal sistema bancario privato), incremento del finanza di progetto per le opere piccole, medie e grandi, valorizzazione del patrimonio pubblico attraverso Fondi immobiliari, Fondi di sviluppo urbano e Fondi per le infrastrutture (in particolare per le reti), finanziamento dell’edilizia sociale, a fianco delle Fondazioni bancarie, facendo leva su beni del patrimonio pubblico (terreni su cui edificare ed edifici da ristrutturare). Infine si è costruito un grande Fondo europeo, per l’energia, l’ambiente e le infrastrutture, in collaborazione con la UE, la BEI e le grandi Casse europee (KFW, CDC, ICO), conosciuto come il Fondo Marguerite.
A questi interventi si sono aggiunte misure di sostegno all’industria. In Italia, la crisi colpisce particolarmente il sistema delle PMI. Su questo fronte, oltre al Fondo per il credito CDP, si dovrà forse intervenire con nuovi strumenti. Si potrebbe pensare ad un sistema di Tremonti Bond per le PMI che intervenga sul capitale con quote di minoranza e senza diritti di voto (mezzanino) con l’obbiettivo di permettere alle imprese di alzare temporaneamente il rapporto tra capitale e debito. Ciò consentirebbe loro di accedere al credito necessario per superare la fase più acuta della crisi.
Si potrebbe forse intervenire con un Fondo ad hoc, come auspicato anche da Confindustria, ma con un costo molto “limitato” per la casse dello Stato. Si stima che con circa un miliardo di euro di nuovo capitale si potrebbe dare ossigeno a tutte quelle PMI che potrebbero averne bisogno. Questo tipo di strumento, così come gli schemi di garanzie, hanno infatti un effetto moltiplicatore molto alto. A titolo esemplificativo, si potrebbe supporre che le imprese interessate siano quelle con un fatturato superiore ai 20-30 milioni di euro (con oltre 20-30 dipendenti) e che potrebbero ottenere interventi su circa il 5-15% del capitale – che equivarrebbe a una media di 200-600 mila euro per ciascuno intervento. Si tratterebbe di una iniezione di capitale capace di aumentare notevolmente la capacità di ottenere il credito necessario per superare il momento più difficile.
Recenti indagini interne all’andamento del credito bancario suggeriscono, infatti, che la vera emergenza dei prossimi 12 mesi non sarà tanto il credit crunch (perché la domanda di credito “buono” , ovvero per investimento o sano funzionamento, sta flettendo negli ultimi mesi), ma il rischio di default di un numero di imprese ben al di là dei livelli fisiologici. In molti settori il giro d’affari si è ridotto del 20/30% (e ben oltre nell’indotto di auto e di elettrodomestici): le imprese già meno efficienti o più indebitate difficilmente potranno avere ossigeno per un anno. Si può azzardare, sulla base di dati empirici raccolti all’interno del settore bancario e proiettati sommariamente, che esistano 10-15 miliardi di euro di crediti potenzialmente in default tra le sole PMI, da aggiungersi ai livelli fisiologici. Insomma l’1% degli impieghi. Con un intervento capace di offrire quote di minoranza di capitale di rischio nell’ordine del miliardo di euro in totale, si potrebbe venire incontro alle esigenze della gran parte delle PMI sane, che sono tuttavia temporaneamente in serie difficoltà.
In conclusione, guardando indietro ai due anni passati, l’Italia ha affrontato il momento più acuto della tempesta, con strumenti adeguati e minimizzando gli effetti negativi sul bilancio pubblico. Da questo punto di vista il nostro Paese può giustamente essere lieto di essere considerato nella difficile congiuntura tra i paesi virtuosi d’Europa. E di questi tempi non mi sembra davvero poco.