La politica ponga un freno allo strapotere della magistratura

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La politica ponga un freno allo strapotere della magistratura

08 Agosto 2007

Forse, per meglio intenderne
la valenza politica ultima, è opportuno tornare a mente fredda sulla vicenda
delle motivazioni con le quali, nella seconda metà di luglio, il gip di Milano,
nel quadro delle indagini su caso Unipol, ha chiesto che venissero ascoltati
alcuni leader del centro-sinistra. La formulazione scelta dalla dott.ssa Forleo
nella sua ordinanza, infatti, conteneva una sorta di accusa indebita nei
confronti dei possibili testimoni. Come si ricorderà, sul tenore di
quell’ordinanza si sono scatenate subito le discussioni e le polemiche. Alle
proteste dei legittimi interessati i giustizialisti di turno hanno risposto
ricordando del tutto a sproposito il principio dell’indipendenza della
magistratura. Nel centro-destra c’è stato chi, in modo miope, si è rallegrato
perché nel mirino della magistratura c’erano esponenti dell’altra parte
politica. C’è, infine, chi ha sottolineato la presunta imparzialità della
dott.ssa Forleo che in passato aveva preso decisioni di altro segno politico
(sic!). Tutte queste oziose discussioni sono state troncate da un sobrio
intervento del presidente della Repubblica che, senza nominare direttamente il
gip milanese, non solo ha invitato le autorità giudiziarie alla massima
serenità e riservatezza nello svolgimento delle proprie funzioni, ma le ha
sollecitate a “non inserire in atti processuali valutazioni e riferimenti
non pertinenti e chiaramente eccedenti rispetto alle finalità del
provvedimento”.

Fin qui i fatti. Tuttavia,
al di là del censurabilissimo atteggiamento di alcuni magistrati (per fortuna
non molti) che, anziché preoccuparsi di amministrare la giustizia, passano il
proprio tempo a studiare i mezzi con cui tenere la ribalta delle cronache,
questa vicenda risulta significativa perché è la spia di una condizione più
generale. Volendo riassumere in poche battute lo stato della questione possiamo
dire che la magistratura italiana ha un potere di fatto che travalica di molto
le competenze e le prerogative fissate all’ordine giudiziario nella nostra Costituzione. A questo scompenso non si è mai potuto porre rimedio perché la
magistratura esercita un potere di veto sulle iniziative di riforma che la
riguardano. Un potere di veto che prescinde dal colore politico delle
maggioranza di governo o dalla personalità del ministro della Giustizia. Si
tratta di un’aura di prestigio derivata da una impropria lettura di avvenimenti
della nostra storia recente. Tra il 1992 ed il 1993, all’epoca di
“tangentopoli”, la magistratura ha acquisito questo potere di fatto,
perché si ritiene che le sue iniziative abbiano svolto un ruolo decisivo nella
fine della cosiddetta prima Repubblica.

Sarà il caso di ricordare
che si tratta di un’illusione ottica e non della realtà. La prima Repubblica
non è caduta in seguito alle inchieste della magistratura, ma per una più
complessiva mancanza di legittimazione. Il sistema politico italiano era
caratterizzato da una sorta di bipartitismo imperfetto, ritagliato sullo
scenario internazionale della guerra fredda: un partito di maggioranza
relativa, la Dc, ininterrottamente al governo; il secondo grande partito, il
Pci, sempre all’opposizione perché ancora filosovietico. Entrato in crisi già
alla fine degli anni settanta, perché obsoleto rispetto allo sviluppo della
società, il sistema politico italiano sopravvive malamente per circa un
quindicennio in uno stato di sclerosi progressiva. Così si arriva alla caduta
del muro di Berlino e alla fine della guerra fredda. A quel punto la
disaffezione popolare, fino ad allora contenuta, si libera improvvisamente. Il
regime a prevalenza democristiana appare di colpo un costoso e ingombrante
relitto del passato. In questo clima di delegittimazione galoppante le
inchieste della magistratura hanno un effetto dirompente. Ma tale effetto è
dovuto alla complessiva fragilità del sistema politico. Per avere una prova a
contrario
di questa affermazione basta por mente al fatto che in precedenza
incriminazioni di uomini politici, per quanto clamorose, non avevano avuto
significative ripercussioni sistemiche. Si pensi, ad esempio, alla messa in
stato di accusa del presidente della repubblica Leone nel 1977 e alle sue
dimissioni nel 1978; oppure si considerino le tante inchieste che costellano le
cronache degli anni ottanta del secolo scorso. Prendere coscienza di questa
semplice realtà, che con il passar del tempo si impone con sempre maggiore
evidenza, può senza dubbio aiutare ad uscire dall’impasse e aiutare quella
intesa bipartisan che possa consentire di superare questo squilibrio fra i
poteri.