La Polverini promuove una politica cinematografica “d’avanguardia”

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La Polverini promuove una politica cinematografica “d’avanguardia”

15 Maggio 2012

In controtendenza solitaria la Regione Lazio ha stanziato 45 milioni di euro per il prossimo triennio da destinarsi all’attività cinematografica e audiovisiva di interesse regionale.

Mentre a livello nazionale si indica in un salto culturale la condizione per la crescita equilibrata e responsabile del Paese ma si riducono gli stanziamenti e i municipi italiani sedi di festival più o meno accreditati si contendono attori per assicurarsi sponsor e tv, la Giunta Polverini  con il contributo di alcuni consiglieri di maggioranza tra i quali Antonio Paris, ha varato la legge n. 135.

Anni fa al Politecnico di Torino dove era stata presentata Storia della Prima Repubblica, una produzione dell’Istituto Luce di cui all’epoca ero presidente, manifestai la convinzione che le risorse finanziarie destinate al cinema dovessero essere impiegate per coltivare i talenti più che inseguire nuove forme filmografiche. Salve rare eccezioni, gli esiti delle produzioni finanziate dalla direzione generale cinema del Ministero dei Beni Culturali, hanno confermato che siamo ricchissimi di proposte artistiche d’avanguardia, tutte unigenite.

Con un articolato di norme che suona come dichiarazione di intenti, la Regione Lazio sembra rompere gli schemi e supportare finalmente AGIS e ANICA nello sforzo di offrire chances ad opere e registi primi ma con occhio attento ai gusti del pubblico.

Affermare che dopo il neorealismo il cinema italiano aveva offerto ben poco, ha sempre fatto guadagnare critiche. Ma solo perché se neorealismo è anche l’italiano di Alberto Sordi, i western di Sergio Leone ecc., dobbiamo indicare le sue derive nel XXI in Carlo Verdone, Luigi Pieraccioni e Cristian de Sica, da un lato, e nei Fratelli Taviani, Gabriele Salvatores e altri, dall’altro. Benigni non conta, è off shore.

Se questo è tanto o poco nessuno può dirlo, però i conti con l’estero della produzione cinematografica italiana suggeriscono che il nostro cinema continua a vivere di mercato domestico. Molti sostengono sia un problema di sceneggiature (come il limite della nostra musica starebbe nell’arrangiamento delle canzoni): è probabile. Forse però incide molto anche la convinzione nostrana che la Cinematografia con la C maiuscola pretende sofferenza e sconfitti mai gioia e vincenti. Finire bene spetta ai i film comici. E neppure a tutti.

La cornice è sempre quella del neorealismo che ci si rifiuta di contestualizzare quanto di sviluppare in linea con le nuove tendenze della società italiana, la quale arranca nel tentativo di abbandonare lo strapuntino sul quale l’hanno costretta la diplomazia di Cavour per fare l’Italia e la politica di De Gasperi e Togliatti per fare gli Italiani.

Eppure nessuno nega che il segreto della cinematografia USA sta nell’aver liberato l’arte narrativa dalla riserva in cui l’avevano confinata gli intellettuali e le avanguardie artistiche europee e nella decisione di raccontare cose che possono capitare a tutti ma solo attraverso personaggi nei quali è possibile ed istintivo immedesimarsi. Come nessuno misconosce che il successo di Hollywood deriva dall’offrire alle masse il sogno di poter diventare e non più il dovere di comprendere.

Non che la filmografia USA eviti di raccontare il dolore del vivere o i rovesci della sorte, tutt’altro. Li ha trattati e continua a trattarli ma riuscendo, di nuovo controintuitivamente, in una impresa impensabile per noi italiani: inventando quella che Roberto Saviano (La bellezza e l’inferno Mondadori Milano 2009) chiama <l’epica della sconfitta> ossia l’esaltazione degli inneschi della Storia che gli storici, citando Tucidide, chiamano gli <atomi della storia>.

Sono protocolli da adottare perché ogni istituzione e situazione può essere scandagliata dalla macchina da presa, analizzata da soggettisti e sceneggiatori e interpretata da attori famosi con la conseguenza di universalizzare gli interessi individuali e anticipare l’evoluzione delle istituzioni più radicate. Gli USA lo hanno fatto con la Famiglia, la Chiesa e lo Stato (basta pensare al diritto dei padri raccontato in Kramer vs Kramer di Robert Benton del 1979) noi avremmo avuto vantaggio a farlo con la nostra storia nazionale passata e contemporanea. Invece continuiamo la strumentalizzazione intellettuale e politica del Cinema, se insistiamo nel volerlo avanguardia comunicativa, dimenticando che la Divina Commedia ha fallito nel suo intento primario, dare una lingua ai popoli italiani divisi, solo perché Dante l’ha scritta troppo presto.