La presentazione, che noia mortale
05 Febbraio 2011
La presentazione? Una riunione di amichetti in cui ognuno parla per ascoltarsi e far sentire agli altri quanto è bravo. Gli invitati, ogni minuto che passa, rischiano di sprofondare. Nella noia.
Roma, 11 gennaio. L’Istituto Nazionale della Grafica, con meritoria, e sorprendente, iniziativa, ha incaricato l’artista Giuseppe Caccavale di graffire sul soffitto del salone, perché poi ci rimangano per sempre, i versi d’amore di Alfonso Gatto. Presentazione dell’evento. Al tavolo Erri De Luca in preda a un torpore sospetto (i maligni parlano di un principio di coma etilico), dal quale si affaccia per dire qualche parola intelligente e bella, come è suo solito, ma con un biascichìo difficile da decifrare. Segue la Prof Laura Cherubini che invece si serve della sua voce brillante e della dizione perfetta per intrecciare, nel commento di un modestissimo filmato sul lavoro dell’artista, il linguaggio ridicolmente criptico della critica d’arte con osservazioni di pregevole banalità.
Presentato dalla succitata Prof come strepitosa indagine sulla realtà del divenire nella creazione dell’opera, il documentario filma con molte ripetizioni e inquadrature banali le operazioni manuali dell’artista al lavoro: il tump-tump del tampone da spolvero, o lo scric-scric del raschietto che incide l’intonaco. Insomma, osservate, signori del pubblico, l’eccezionale valenza creativa della normalità del gesto: tump-tump, scric-scric. Caspita, se non ce lo avessero detto non ci saremmo accorti di niente. E tutti giù a sorridersi complici, ad annuire, a chiamarsi per nomignolo. I relatori, intendiamo, perché il pubblico appare solo in ansia di sgattaiolare via.
Dieci minuti, sarebbe stato il tempo giusto, così poi potevamo guardare l’opera per cui eravamo andati. Invece no, perché, finito il troppo lungo cicaleccio, i custodi avevano già chiuso la sala. Tutti a casa. Ascoltato troppo, visto niente.
Il giovedì dopo, 13 gennaio, alla Discoteca di Stato. Presentazione di un libro sugli inizi della teleradiofonia. Anche qui, parrocchietta. Per fortuna, in apertura, il professor Monteleone espone l’argomento con chiarezza esemplare e tempi umanamente accettabili. Poi si scatena la sparatoria verbale, preceduta dai soliti: "Sarò breve" e "Per concludere" (se mai si cercasse un epitaffio all’ipocrisia, eccolo) di tutti gli altri membri della confraternita. Il tono è fintamente colloquiale, i relatori fanno mostra di volersi bene e di stimarsi a vicenda, il pubblico è ammesso all’eventuale dibattito, ma a una certa distanza, che non si prenda troppa confidenza.
Terza esperienza: 20 gennaio, Accademia di San Luca, dietro Fontana di Trevi, a Roma. Piccolo stop perché a questo punto dobbiamo inserire tre perfide parentesi. Prima: (Nei dintorni si aggirano, a uso dei turisti, due centurioni romani, un po’ fuori epoca, ci pare, rispetto alla fontana, che è del settecento. Mah?) Seconda: (Nella chiesa lì di fronte, che più barocca non si può, dagli altoparlanti escono canti gregoriani; anche qui, come dire, qualche incongruenza di cronologia…).
Veniamo al dunque: argomento di vivo interesse, e non stiamo scherzando. Un incontro su come sarebbe diventata Venezia se Andrea Palladio fosse riuscito a realizzare tutti i suoi progetti (fantarchitettura, bello immaginarla). Salone d’onore. Pareti tappezzate di damasco rosso cupo. Soffitto a cassettoni di quercia scurissima. Più funereo di una cripta. Otto lampade a muro riescono a infastidirci lo sguardo, pur emettendo una luce sepolcrale. Il tavolo dei relatori è nella penombra totale. Nessun progetto di un’illuminazione funzionale: puntiamo su quello che è importante vedere, e teniamo in ombra il resto, no? No, per carità, saremo mica matti! Poi gli accademici si abituano a questa diavoleria moderna (elettricità, si chiama) e magari la vogliono tutte le sere.
Noi, in piedi in fondo alla sala con l’occhio spalmato su una panoramica di pelate (a proposito, come mai alcune calvizie sono lucide e altre opache?) e canizie. Un caldo infernale, anche con la tramontana fuori, perché, con quei giovanotti presenti, non si può scherzare: “Aria di fessura, aria di sepoltura”, quindi tutto sigillato. In conclusione, accidenti, un argomento così interessante massacrato da quel mix di decrepitezza, atmosfera tombale e ambiente ostile.
Prudenti, ci eravamo piazzati accanto all’uscita, e dopo un’oretta, ancora a metà dell’evento, abbiamo tagliato la corda, felici di rivedere Fontana di Trevi con i suoi centurioni anacronistici, ma almeno vivi.
Terza parentesi: Quando ci passate, prego, sbirciate dentro questo capolavoro di fontana e seguite con gli occhi i molti metri di cavi, (d’accordo, sono senz’altro indispensabili per portare l’elettricità ai faretti), che si srotolano sott’acqua come dei serpentoni, bene in vista lungo le scogliere di travertino.
Il travertino è una pietra, come sappiamo tutti, bianca. Quei cavi, di che colore li hanno scelti? Ma neri naturalmente, e in più, di un bel nero bagnato, lucido e prepotente. Con un magnifico effetto capello-nella-panna-montata.
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